Regno di Napoli o Regno di Puglia?

sud italico 1300  regno di sicilia e di puglia


facciamo luce sulla nascita e fine del regno di Napoli e non sulla napolitania, nome inventato da alcuni cosiddetti indipendentisti

Regno di Napoli o Regno di Sicilia citeriore o Regno di Puglia
bandiera angioina
Nome ufficiale   “Regnum Siciliae citra Pharum”
Lingue ufficiali Latino, italiano,Napoletano, spagnolo, catalano, francese.
Lingue parlate   Vernacoli meridionali e meridionali estremi, con minoranze di lingua occitana, greca, francoprovenzale, croato-molisana e arbëreshë.
Capitale Napoli
Altre capitali Caserta
Nascita 1302.
Causa :Nomina a Rex Siciliae citra Pharum di Carlo II d'Angiò con la pace di Caltabellotta,
 Fine 1816,
Causa:Unione sotto la corona dei Borbone del Regno di Napoli e del Regno di Sicilia dopo il congresso di Vienna
Territorio e popolazione
Bacino geografico Abruzzo (incluse Leonessa, Amatrice, Cittaducale e il Cicolano), Molise, Campania (incluse Sora e Gaeta), Puglia, Basilicata, Calabria
Territorio originale Italia meridionale
Massima estensione       Unione personale o dinastica, sotto vari sovrani angioini, con i regni di Ungheria, di Gerusalemme, di Albania, con il Principato d'Acaia e le contee di Provenza e di Forcalquier; con Alfonso I Napoli divenne la capitale de facto della Corona d'Aragona nel
Popolazione       5.700.000 nel 1832
Suddivisione       12-14 province
Economia
Valuta   Tarì, Tornese, Grano, Carlino, Ducato, Piastra o Pezza, Cavallo
Commerci con   Stati italiani ed europei del Mediterraneo, Inghilterra
Esportazioni       Grano, olio d'oliva, vino, seta, lana, carta, merletti, ceramiche artistiche, zafferano, lame.
Importazioni      Metalli preziosi, spezie.
Religione e società
Religione di Stato            Religione cattolica
Religioni minoritarie       Ebrei, Ortodossi, Valdesi

Regno di Napoli è il nome convenzionale con cui è conosciuto nella storiografia moderna l'antico stato italiano esistito dal XIII al XIX secolo, il cui nome ufficiale era Regno di Sicilia citeriore.
 Utilizzato dagli storici fu anche il nome Regno di Puglia, che trova la sua origine in età normanna, allorquando il territorio era parte integrante del Regno normanno di Sicilia. Quest'ultimo Stato fu istituito nel 1130, con il conferimento a Ruggero II d'Altavilla del titolo di Rex Siciliae dall'antipapa Anacleto II, titolo confermato nel 1139 da papa Innocenzo II. Il nuovo stato insisteva così su tutti i territori del Mezzogiorno e della Sicilia, attestandosi come il più ampio degli antichi stati italiani.

A seguito della rovina della famiglia imperiale degli Hohenstaufen, che era succeduta agli Altavilla, papa Urbano IV nominò nel 1263 Carlo I d'Angiò nuovo Rex Siciliae. Ma il pesante fiscalismo angioino e il malcontento diffuso a tutti gli strati della popolazione isolana determinarono la rivolta del Vespro; seguì la guerra dei novant'anni tra Pietro III d'Aragona, imparentato con gli Hohenstaufen, e gli Angiò. Sconfitto, il 26 settembre 1282 Carlo d'Angiò lasciò definitivamente la Sicilia nelle mani degli Aragonesi. Alla stipula della Pace di Caltabellotta (1302) seguì la formale divisione del regno in due: Regnum Siciliae citra Pharum (noto nella storiografia moderna come Regno di Napoli) e Regnum Siciliae ultra Pharum (anche noto per un breve periodo come Regno di Trinacria, noto nella storiografia moderna come Regno di Sicilia). Pertanto questo trattato può essere considerato l'atto di fondazione convenzionale dell'entità politica nota come Regno di Napoli.

Il regno, ormai stato sovrano, vide una grande fioritura intellettuale, economica e civile sia sotto le varie dinastie angioine (1282-1445), sia con la riconquista aragonese di Alfonso I (1442-1458), sia sotto il governo di un ramo cadetto della casa d'Aragona (1458-1501); allora la capitale era celebre per lo splendore della sua corte e il mecenatismo dei sovrani. Nel 1504, la Spagna unita sconfisse la Francia e annesse definitivamente il regno di Napoli, riunendolo finalmente al regno isolano; essi furono governati come due vicereami distinti ma con la dicitura ultra et citra Pharum, con la conseguente distinzione storiografica e territoriale tra Regno di Napoli e Regno di Sicilia. Benché i due regni, nuovamente riuniti, ottennero l'indipendenza con Carlo III già nel 1734, l'unificazione giuridica definitiva di entrambi i regni si ebbe solo nel 1816, con la fondazione dello stato sovrano del Regno delle Due Sicilie.
Il territorio del Regno di Napoli corrispondeva alla somma di quelli delle attuali regioni d'Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata e Calabria e comprendeva anche alcune aree dell'odierno Lazio meridionale ed orientale.

Dal Regno di Sicilia al Regno di Napoli
L'isola di Sicilia e l'intera Italia meridionale a sud del Tronto e del Liri erano i territori che formavano il Regno di Sicilia, costituito di fatto nel 1127-1128 quando il conte di Sicilia Ruggero II d'Altavilla unificò sotto il suo dominio i diversi feudi normanni dell'Italia Meridionale (Ducato di Puglia e Calabria). Il titolo di Re di Sicilia fu istituito dall'Antipapa Anacleto II fin dal 1130 e successivamente legittimato, nel 1139, da Papa Innocenzo II. Alla fine del XII secolo, a seguito della sconfitta di Federico Barbarossa, lo Stato Pontificio aveva avviato con Innocenzo III una politica di espansionismo del potere temporale; papa Innocenzo IV, in linea col suo predecessore, rivendicò i diritti feudali dello Stato della Chiesa sul Regno di Sicilia, poiché i titoli regali sullo Stato erano stati assegnati ai normanni (Ruggero II) da papa Innocenzo II. Quando però Enrico VI, figlio del Barbarossa, sposò Costanza d'Altavilla, ultima erede del Regno di Sicilia, il territorio normanno passò sotto la corona sveva, diventando un centro strategico della politica imperiale degli Hohenstaufen in Italia, in particolare con Federico II.
Il sovrano Svevo, nella duplice posizione di Imperatore del Sacro Romano Impero Germanico e re di Sicilia, fu uno dei protagonisti della storia medievale europea: si preoccupò principalmente del Regno di Sicilia, delegando ai principi germanici parte dei suoi poteri nei territori d'oltralpe. Principale ambizione del sovrano fu quella di creare uno Stato coeso ed efficiente: nobiltà feudale e città dovevano rispondere unicamente al re, in uno Stato fortemente centralizzato retto da un capillare apparato burocratico e amministrativo, che trovò nelle Costituzioni di Melfi la sua massima espressione.
domini aragonesi nel 1443
Durante il regno di Federico II, le nuove vie commerciali in direzione della Toscana, della Provenza e in definitiva dell'Europa, risultavano sempre più vantaggiose e proficue rispetto a quelle del Mediterraneo meridionale, dove spesso i traffici erano ostacolati dall'ingerenza dei Saraceni e l'incostanza di diversi Regni Islamici. Federico II fondò a Napoli lo Studium, ovvero la più antica università statale d'Europa, destinata a formare le menti della classe dirigente del Regno.
Alla morte di Federico (1250), il figlio Manfredi assunse la reggenza del Regno. Un diffuso scontento e la resistenza dei ceti baronale e cittadino al nuovo sovrano sfociò infine in una violenta sollevazione contro le imposizioni provenienti dalla corte regia. In questo i rivoltosi trovarono il sostegno di papa Innocenzo IV, desideroso di estendere la sua autorità nel Mezzogiorno. Tanto i feudatari quanto la classe, tipicamente urbana, composta da burocrati, notai e funzionari, desideravano più indipendenza e maggiore respiro dal centralismo monarchico; pertanto Manfredi tentò una mediazione. Il nuovo sovrano affrontò i conflitti con una decisa politica di decentramento amministrativo che tendeva ad integrare nella gestione del territorio, oltre che i ceti baronali, anche le città.
Pur senza cedere alle richieste d'autonomia provenienti dall'ambiente urbano, il nuovo sovrano valorizzò molto più del padre la funzione delle città come poli amministrativi, favorendo anche l'inurbamento dei baroni; ciò fece emergere, accanto alla più antica nobiltà baronale, un nuovo ceto burocratico urbano, che in vista di una promozione sociale, investì parte dei guadagni nell'acquisto di estesi patrimoni terrieri. Tali mutamenti della composizione del ceto dirigente urbano indussero anche nuove relazioni tra le città e la corona, preannunciando le profonde trasformazioni della successiva età angioina.
campagna di Carlo I e la nascita del regno di albania
Manfredi continuò inoltre a legittimare le politiche ghibelline, controllando direttamente l'«Apostolica Legazia di Sicilia», corpo politico-giuridico in cui l'amministrazione delle diocesi e del patrimonio ecclesiastico era direttamente gestita dal sovrano, ereditaria e senza la mediazione papale. In questi anni papa Innocenzo IV sostenne una serie di rivolte in Campania e Puglia che portarono all'intervento diretto dell'imperatore Corrado IV, fratello maggiore di Manfredi, il quale infine riportò il Regno sotto la giurisdizione imperiale. Succedette a Corrado IV il figlio Corradino di Svevia e, finché quest'ultimo fu ancora minorenne, il governo della Sicilia e della Apostolica Legazia fu presa da Manfredi: egli, più volte scomunicato per contrasti con il papato, arrivò a proclamarsi re di Sicilia.
Morto Innocenzo IV, il nuovo papa di origine francese Urbano IV, rivendicando diritti feudali sull'isola e temendo una possibile futura, diretta annessione del Regno di Sicilia al Sacro Romano Impero Germanico, chiamò in Italia Carlo d'Angiò, conte di Angiò, Maine e Provenza, e fratello del re di Francia, Luigi IX: nel 1266 il vescovo di Roma lo nominò rex Siciliae. Il nuovo sovrano dalla Francia partì allora alla conquista del regno, sconfiggendo prima Manfredi nella battaglia di Benevento, e poi Corradino di Svevia a Tagliacozzo, il 23 agosto 1268.
Gli Hohenstaufen, la cui linea maschile si era estinta con Corradino, furono eliminati dalla scena politica italiana mentre gli angioini si assicurarono il dominio sul Regno di Sicilia. La calata di Corradino, tuttavia, fu la premessa di importanti sviluppi, perché le città siciliane, che avevano accolto benevolmente Carlo d'Angiò dopo la battaglia di Benevento, erano nuovamente passate a sostenere la parte ghibellina. La svolta anti-angioina sull'isola, motivata dall'eccessiva pressione fiscale del nuovo governo francese, non ebbe conseguenze politiche immediate, ma fu il primo passo verso la successiva guerra del vespro.
La grande speculazione finanziaria che la guerra aveva comportato (gli angioini si erano indebitati con i banchieri guelfi di Firenze), portò a una serie di nuove tassazioni e gabelle in tutto il regno, che si sommarono a quelle che il re impose quando ebbe a finanziare una serie di campagne militari in oriente, nella speranza di assoggettare al suo dominio i resti dell'antico impero bizantino.

Gli Angioini
L'avvento di Carlo I sul trono, divenuto Re grazie all'investitura Papale e per diritto di conquista, non segnò tuttavia una vera e propria rottura con la dominazione Sveva, ma si realizzò in un quadro di sostanziale stabilità delle istituzioni monarchiche ed in particolare dell'impianto fiscale. Il rafforzamento dell'apparato di governo attuato in precedenza da Federico II offriva infatti alla dinastia Angioina una struttura Statale solida su cui poggiare il proprio potere. Il primo re Angioino conservò senza discontinuità le magistrature elettive dell'apparato regio e nell'amministrazione centrale associò strutture del Regno svevo con le istituzioni della monarchia francese.
L'eredità dell'organizzazione dello Stato federiciano, riutilizzata da Carlo I, però riproponeva nuovamente il problema dell'opposizione congiunta delle città e della nobiltà feudale: le stesse forze che durante il regno di Manfredi avevano appoggiato la dinastia francese contro gli Svevi. Il sovrano angioino, nonostante i solleciti del Papa, governò con forte assolutismo, incurante delle pretese della nobiltà e del ceto urbano, che non consultò mai se non per l'aumento delle tassazioni dovuto alla guerra contro Corradino.
Con la morte di Corradino, per mano degli Angioini, i diritti svevi sul trono di Sicilia passarono ad una delle figlie di Manfredi: Costanza di Hohenstaufen, che il 15 luglio 1262 aveva sposato il re d'Aragona Pietro III. Il partito ghibellino di Sicilia che precedentemente si era organizzato attorno agli svevi Hohenstaufen, fortemente scontento della sovranità francese sull'isola, cercò il sostegno di Costanza e degli aragonesi, per organizzare la rivolta contro gli angioini.
Iniziò così la rivolta del Vespro. Questa è stata a lungo considerata l'espressione di una ribellione popolare spontanea contro il peso della fiscalità ed il governo tirannico «della mala Signoria Angioina», come la definì Dante Alighieri; ma questa interpretazione ha lasciato ormai spazio ad una valutazione più attenta alla complessità degli avvenimenti e alla molteplicità degli attori in campo.
Un ruolo centrale deve essere indubbiamente attribuito all'iniziativa dell'aristocrazia rafforzatasi in età Sveva, più decisamente radicata in Sicilia, che sentiva minacciate le proprie posizioni di potere dalle scelte del nuovo sovrano: la preferenza accordata dagli Angiò a Napoli, il loro strettissimo legame con il Papa ed i mercanti Fiorentini, la tendenza ad affidare importanti funzioni di governo ad uomini provenienti dal Mezzogiorno peninsulare.
Fra questi oppositori si distinguevano per attivismo le famiglie aristocratiche emigrate che, dopo l'esecuzione del giovane Corradino, avevano dovuto rinunciare a diritti e a beni patrimoniali, ma che godevano del sostegno delle città Ghibelline dell'Italia centro-settentrionale. Inoltre con la perdita di centralità della Sicilia, anche le forze produttive e commerciali, che avevano in principio sostenuto la spedizione Angioina, si trovarono in netta contrapposizione con la crescente egemonia del Mezzogiorno peninsulare.
Inoltre non è da sottovalutare l'interferenza di agenti esterni come la monarchia Aragonese, in quel periodo in grande contrapposizione con il blocco franco-angioino, le città Ghibelline, ed addirittura l'impero Bizantino, fortemente preoccupato dai progetti espansionistici di Carlo che gli aveva già strappato Corfù e Durazzo ormai parti del Regno di Sicilia.
Nascita del regno
La sollevazione popolare anti-angioina iniziò a Palermo il 31 marzo 1282 e dilagò in tutta la Sicilia, finché nell'agosto del 1282 l'esercito di Carlo d'Angiò non fu sconfitto durante l'Assedio di Messina che duro' ben 5 mesi, da maggio a settembre 1282. Il Parlamento Siciliano incorono'Pietro III di Aragona e la moglie Costanza, figlia di Manfredi: di fatto da quel momento vi furono due sovrani con il titolo di re di Sicilia: l'Aragonese, per investitura del Parlamento Siciliano, e l'Angioino, per investitura papale.

Il 26 settembre 1282 Carlo d'Angiò scappò definitivamente dal campo d'armi in Calabria. Qualche mese più tardi, il papa regnante Martino IV scomunicò Pietro III. Ciononostante non fu più possibile per Carlo tornare nell'arcipelago siciliano e la sede regia angioina fu itinerante tra Capua e la Puglia per diversi anni, finché con il successore di Carlo I, Carlo II d'Angiò, Napoli fu definitivamente scelta come nuova sede della monarchia e delle istituzioni centrali nel continente[19]. Si concludeva così quel processo che fin dai tempi di Federico II, aveva spinto i sovrani a privilegiare la città del Vesuvio e con Carlo II,la dinastia ebbe la sua sede fissa nel Maschio Angioino .
Seppur le ambizioni angioine in Sicilia furono inibite dalle numerose sconfitte, Carlo I mirò a consolidare il proprio potere nella parte continentale del regno, innestando sulla precedente politica baronale guelfa parte delle riforme che già il vecchio Stato Svevo stava attuando per rafforzare l'unità territoriale del Mezzogiorno. Dalle prime invasioni longobarde buona parte dell'economia del regno, nel principato di Capua, in Abruzzo, e nel Contado di Molise, era gestita dai monasteri benedettini (Casauria, San Vincenzo al Volturno, Montevergine, Montecassino), che in molti casi avevano accresciuto i loro privilegi fino a diventare vere e proprie signorie locali, a sovranità territoriale e in contrasto spesso con i feudatari laici vicini. L'invasione normanna prima, le lotte fra l'antipapa Anacleto II, sostenuto fra gli altri dai benedettini, e il papa Innocenzo II, e infine la nascita del regno di Sicilia, minarono le basi della tradizione feudale benedettina. Dopo il 1138, sconfitto Anacleto II, Innocenzo II e le dinastie normanne incentivarono nell'Italia meridionale il monachesimo cistercense; molti monasteri benedettini furono convertiti alla nuova regola che, limitando l'accumulazione di beni materiali alle risorse necessarie per la produzione artigianale e agricola, precludeva la possibilità per i nuovi cenobi di costituire patrimoni e signorie feudali: il nuovo ordine investiva quindi le risorse in riforme agrarie (bonifiche, dissodamenti, grangìe), artigianato, meccanica e assistenza sociale, con valetudinaria (ospedali), farmacie e chiese rurali.
Il monachesimo francese trovò allora il sostegno dei vecchi feudatari normanni che poterono così contrastare attivamente le ambizioni temporali del clero locale: su questo compromesso si innestò la politica del nuovo sovrano Carlo I; egli fondò di sua mano le abbazie cistercensi di Realvalle (Vallis Regalis) a Scafati e Santa Maria della Vittoria a Scurcola Marsicana, e favorì le filiazioni delle storiche abbazie di Sambucina (Calabria), Sagittario (Basilicata), Sterpeto (Terra di Bari), Ferraria (principato di Capua), Arabona (Abruzzo) e Casamari (Stato Pontificio), diffondendo al contempo il culto dell'Assunzione di Maria nel Mezzogiorno. Concesse inoltre nuove contee e ducati ai militari francesi che sostennero la sua conquista del napoletano.
I principali centri monastici di produzione economica erano stati così svincolati dall'amministrazione di possedimenti feudali e l'unità dello Stato, debellata l'autorità politica benedettina, si fondava ora sulle antiche baronie normanne e sull'assetto militare risalente a Federico II. Carlo I infatti conservò gli antichi giustizierati federiciani, accrescendo il potere dei rispettivi presidenti: ogni provincia aveva un giustiziere che, oltre ad essere a capo di un importante tribunale, con due corti, era anche il vertice della gestione del locale patrimonio finanziario e dell'amministrazione del tesoro, ricavato dalle tassazioni delle universitates (comuni). L'Abruzzo fu diviso in Aprutium citra (flumen Piscariae) e Aprutium ultra (flumen Piscariae); molte delle città sveve, come Sulmona, Manfredonia e Melfi, persero il loro ruolo centrale nel regno in favore di città minori o antichi capoluoghi decaduti come Sansevero, Chieti e L'Aquila, mentre nei territori che erano stati bizantini (Calabria, Puglia) si consolidò l'assetto politico iniziato dalla conquista normanna: l'amministrazione periferica, che i greci affidavano ad un capillare sistema di città e diocesi, tra il patrimonium publicum dei funzionari bizantini e il p. ecclesiae dei vescovi, da Cassanum a Gerace, da Barolum a Brundisium, fu sostituita definitivamente dall'ordine feudale della nobiltà fondiaria. Nel Mezzogiorno le sedi dei giustizieri (Salerno, Cosenza, Catanzaro, Reggio, Taranto, Bari, Sansevero, Chieti, L'Aquila e Capua) o di importanti arcidiocesi (Benevento e Acheruntia), oltre che la nuova capitale, restarono gli unici centri abitati dotati di peso politico o attività finanziarie, economiche e culturali. Carlo perse però, per dei provvedimenti pontifici, le ultime regalie del napoletano, quali il diritto del sovrano di nominare degli amministratori regi nelle diocesi con sedi vacanti: tali privilegi fino ad allora nel Mezzogiorno erano sopravvissuti alla riforma gregoriana che stabiliva che solo il pontefice doveva godere della facoltà di nominare e deporre vescovi (libertas Ecclesiae).
Il 7 gennaio 1285 morì Carlo I d'Angiò e gli succedette Carlo II. Con l'ascesa al trono di Napoli di questo sovrano, la politica regia ebbe una svolta: da quel momento, in seguito alla quasi costante belligeranza tra i regni di Sicilia (Napoli) e di Trinacria (Sicilia), la politica della dinastia Angioina si interessò soprattutto di ottenere un buon consenso all'interno del Regno. Infatti furono da un lato aumentati i privilegi alla nobiltà feudale, indispensabile alla causa bellica, ma dall'altro, quasi a voler bilanciare l'implementarsi dei potentati feudali, furono accordate dai sovrani alle città, in gradi diversi a seconda dell'importanza che esse ricoprivano, nuove libertà ed autonomie. Queste ora potevano eleggere i giurati, ovvero i giudici con funzioni amministrative e di controllo ed i sindaci, rappresentanti della popolazione presso il sovrano. Si venne così a creare a Napoli ed in altre realtà urbane del Mezzogiorno una crescente conflittualità tra nobiltà cittadina ed il popolo grasso, al quale successivamente il Re Roberto concesse la possibilità di entrare direttamente nell'amministrazione dello Stato. Per certi versi si venne a creare, almeno nelle principali città del Regno una situazione rassomigliante al contrasto esistente anche nei comuni e nelle signorie dell' Italia centro-settentrionale, ma la pace del Re, fungeva da equilibratrice e la figura del sovrano da arbitro, poiché l'autorità del Re era comunque indiscutibile. Si configurò così un gioco di equilibrio tra città e realtà rurali-feudali abilmente gestito dalla monarchia, che sotto l'egida di Roberto d'Angiò giunse a regolamentare e delineare nettamente le sfere di influenza di nobiltà feudale, città e demanio regio.
In Sicilia invece, alla morte di Pietro III, re d'Aragona e Sicilia, il dominio sull'isola fu conteso dai suoi due figli Alfonso III e Giacomo I di Sicilia. Quest'ultimo firmò il Trattato di Anagni del 12 giugno 1295, cedendo i diritti feudali sulla Sicilia a papa Bonifacio VIII: il pontefice in cambio concesse a Giacomo I la Corsica e la Sardegna, conferendo quindi la sovranità della Sicilia a Carlo II di Napoli, erede del titolo di rex Siciliae da parte angioina. Il trattato d'Anagni però non portò a una pace duratura; quando Giacomo I lasciò la Sicilia per governare l'Aragona, il trono palermitano fu affidato al fratello Federico III che guidò l'ennesima ribellione per l'indipendenza dell'isola e fu poi incoronato da Bonifacio VIII re di Trinacria (rex Trinacriae). Federico III però perse l'appoggio di alcuni baroni siciliani; per conservare il titolo regale, per la prima volta riconosciuto dalla Santa Sede, firmò con Carlo di Valois, chiamato da Martino IV a ripristinare l'ordine in Sicilia, la pace di Caltabellotta nel 1302: furono allora formalmente distinti dall'antico Regno di Sicilia normanno-svevo, il Regno di Trinacria, sotto il controllo degli Aragonesi con capitale Palermo, e il regno di Sicilia con capitale Napoli sotto il controllo degli angioini. Carlo II a questo punto rinunziò alla riconquista di Palermo e iniziò una serie di interventi legislativi e territoriali per adattare Napoli al ruolo di nuova capitale dello Stato: ampliò le mura cittadine, ridusse la pressione fiscale e vi insediò la Gran Corte della Vicaria.
Nel 1309 il figlio di Carlo II, Roberto d'Angiò, venne incoronato da Clemente V re di Napoli, ancora però con il titolo di rex Siciliae, oltre che di rex Hierosolymae.
Con questo sovrano la dinastia Angioino-napoletana raggiunse il suo apogeo. Roberto d'Angiò, detto "il Saggio" e "pacificatore d'Italia", rafforzò l'egemonia del Regno di Napoli, ponendo egli stesso e il suo reame a capo della lega Guelfa, opponendosi alle pretese Imperiali di Arrigo VII e Ludovico il Bavaro sul resto della penisola, riuscendo finanche grazie alla sua astuta e prudente politica a divenire Signore di Genova.
Roberto tentò la riconquista della Sicilia in seguito all'attacco congiunto delle forze imperiali ed aragonesi al Regno di Napoli ed alla lega Guelfa. Sebbene le sue truppe giunsero ad occupare e saccheggiare Palermo, Trapani e Messina, l'atto fu più punitivo che di concreta conquista, infatti il sovrano Angioino non fu in grado di proseguire in una lunga guerra di logoramento e fu costretto a rinunciare.
Sotto la sua guida le attività commerciali si intensificarono, fiorirono le logge e le corporazioni, Napoli divenne la città più vivace del Basso Medioevo in Italia, grazie all'effetto dell'attività mercantile intorno al nuovo porto che divenne forse il più movimentato della penisola che attirava il localizzarsi di piccole e grandi imprese commerciali, operanti nel campo dei tessuti e dei drappi, delle oreficerie e delle spezie. Ciò fu anche dovuto alla presenza di banchieri, cambiavalute ed assicuratori, Fiorentini, Genovesi, Pisani e Veneziani, disposti ad assumersi rischi di non limitata entità pur di assicurarsi rapidi e cospicui profitti a movimentare l'economia di una capitale sempre più cosmopolita.
Inoltre il sovrano, nella sua costante funzione di arbitro tra nobiltà e popolo grasso, ridusse il numero di seggi nobiliari per limitarne l'influenza a vantaggio dei populares.

Roberto il Saggio
In questi anni la città di Napoli rafforzò il suo peso politico nella penisola, anche con lo sviluppo della propria vocazione umanistica. Roberto d'Angiò era molto stimato dagli intellettuali italiani suoi contemporanei come il Villani, il Petrarca, Boccaccio e Simone Martini. Proprio il Petrarca volle da lui essere interrogato per poter conseguire il lauro e lo definì "Il Re più saggio dopo Salomone". Al contrario non godette mai delle simpatie del filo-imperiale Dante Alighieri che lo definì "Re da sermone".
Il sovrano raccolse a Napoli in una scuola, non preclusa alle influenze dell'averroismo, un importante gruppo di teologi scolastici. Egli affidò a Nicola Deoprepio di Reggio Calabria la traduzione delle opere di Aristotele e Galeno per la biblioteca di Napoli.[35] Dalla Calabria inoltre vennero nella nuova capitale Leonzio Pilato e il basiliano Barlaamo di Seminara, celebre teologo che affrontò in quegli anni in Italia le dispute dottrinali sorte attorno al filioque e al credo niceno[36]: il monaco fu anche a contatto con Petrarca, di cui fu maestro di greco, e Boccaccio che lo conobbe proprio a Napoli.
Importante anche dal punto di vista artistico fu l'apertura di una scuola giottesca e la presenza di Giotto in città per affrescare la Cappella Palatina nel Maschio Angioino e numerosi palazzi nobiliari, inoltre sotto Roberto d'Angiò si diffuse lo stile gotico in tutto il Regno, a Napoli il Re edificò la Basilica di Santa Chiara, sacrario della dinastia Angioina. Il Regno di Napoli si distinse in quel periodo per una cultura del tutto originale che accostava ad elementi tipicamente Italici e Mediterranei anche peculiarità delle corti dell'Europa centrale, trovando una sintesi tra il culto dei valori cavallereschi, la poesia Provenzale e le correnti artistiche, poetiche e i costumi tipicamente Italici.
Il re Roberto designò come suo erede il figlio Carlo di Calabria ma dopo la morte di quest'ultimo, il sovrano fu costretto a lasciare il trono alla sua giovane nipote, Giovanna d'Angiò figlia di Carlo.
Nel 1372, Giovanna I d'Angiò, e Federico IV di Sicilia sottoscrissero un trattato di pace che sanciva il riconoscimento reciproco delle monarchie e dei rispettivi territori: Napoli agli Angioini e la Sicilia agli Aragonesi, estendendo il riconoscimento dei titoli regi anche alle rispettive linee di successione.
L'erede di Roberto, Giovanna I di Napoli, aveva sposato Andrea d'Ungheria, duca di Calabria e fratello del re d'Ungheria Luigi I, discendenti entrambi dagli angioini partenopei (Carlo II). A seguito di una misteriosa congiura Andrea fu ucciso. Per vendicarne la morte, il 3 novembre 1347 il re d'Ungheria scese in Italia con l'intenzione di spodestare Giovanna I di Napoli. Benché il sovrano ungherese più volte avesse preteso dalla Santa Sede la deposizione di Giovanna I, il governo pontificio, risiedente allora ad Avignone e politicamente legato alla dinastia francese, confermò sempre il titolo di Giovanna nonostante le spedizioni militari che il re d'Ungheria intraprese in Italia. La regina di Napoli, da parte sua, priva di una discendenza uterina, adottò come figlio ed erede al trono Carlo di Durazzo (nipote di Luigi I d'Ungheria), finché anche Napoli non fu direttamente coinvolta negli scontri politici e dinastici che seguirono lo Scisma d'Occidente: a corte e in città si contrapposero direttamente un partito filofrancese e un partito locale, il primo schierato a favore dell'antipapa Clemente VII e capeggiato dalla regina Giovanna I, il secondo a favore del papa napoletano Urbano VI che trovò il sostegno di Carlo di Durazzo e dell'aristocrazia Napoletana. Giovanna privò allora Carlo di Durazzo dei diritti di successione in favore di Luigi I d'Angiò, fratello del re di Francia, incoronato re di Napoli (rex Siciliae) da Clemente VII nel 1381. Egli, alla morte di Giovanna I (uccisa per ordine dello stesso Carlo di Durazzo nel Castello di Muro Lucano nel 1382), scese però inutilmente in Italia contro Carlo di Durazzo, e qui morì nel 1384. Carlo restò unico sovrano, e lasciò Napoli ai figli Ladislao e Giovanna per recarsi quindi in Ungheria a rivendicarne il trono: nel regno transalpino venne assassinato in una congiura.
Prima che i due eredi Ladislao e Giovanna raggiungessero la maturità, la città campana cadde in mano al figlio di Luigi I d'Angiò, Luigi II, incoronato re da Clemente VII il 1º novembre 1389. La nobiltà locale osteggiò il nuovo sovrano e nel 1399 Ladislao I poté rivendicare militarmente i suoi diritti al trono sconfiggendo il re francese. Il nuovo re seppe restaurare l'egemonia napoletana nell'Italia meridionale intervenendo direttamente nei conflitti di tutta la penisola: nel 1408, chiamato da papa Innocenzo VII per sedare le rivolte ghibelline nella capitale pontificia, occupava buona parte del Lazio e dell'Umbria ottenendo l'amministrazione della provincia di Campagna e Marittima, e occupando poi Roma e Perugia sotto il pontificato di Gregorio XII. Nel 1414, dopo aver sconfitto definitivamente Luigi II d'Angiò, ultimo sovrano a capo di una lega organizzata dall'antipapa Alessandro V e volta ad arginare l'espansionismo partenopeo, il re di Napoli giungeva alle porte di Firenze. Con la sua morte tuttavia non vi furono successori a continuare le sue imprese e i confini del regno tornarono entro il perimetro storico; la sorella di Ladislao però, Giovanna II di Napoli, alla fine dello scisma d'Occidente, ottenne il riconoscimento definitivo dalla Santa Sede del titolo regale per la sua famiglia.
Succeduta a Ladislao nel 1414 la sorella Giovanna, il 10 agosto 1415 sposò Giacomo II di Borbone: dopo che il marito tentò di acquisire personalmente il titolo regale, una rivolta nel 1418 lo costrinse a tornare in Francia dove si ritirò in un monastero francescano. Giovanna nel 1419 era la sola regina, ma le mire espansionistiche nel napoletano degli angioini di Francia non cessarono. Papa Martino V chiamò in Italia Luigi III d'Angiò contro Giovanna che non voleva riconoscere i diritti fiscali dello Stato Pontificio sul regno di Napoli. La minaccia francese perciò avvicinò il regno di Napoli alla corte aragonese, tanto che la regina adottò Alfonso V d'Aragona come suo figlio ed erede finché Napoli fu sotto l'assedio dalle truppe di Luigi III. Allorché gli aragonesi liberarono la città nel 1423, occupando il regno e scongiurando la minaccia francese, i rapporti con la corte locale non furono facili, tanto che Giovanna, cacciato Alfonso V, alla sua morte lasciò il regno in eredità a Renato d'Angiò, fratello di Luigi III.

Con la morte senza eredi di Giovanna II d'Angiò-Durazzo il territorio del regno di Napoli fu conteso da Renato d'Angiò, che ne rivendicava la sovranità in quanto fratello di Luigi d'Angiò, figlio adottivo della regina di Napoli Giovanna II, e Alfonso V re di Trinacria, Sardegna e Aragona, precedente figlio adottivo poi ripudiato della stessa regina. La guerra che ne scaturì coinvolse gli interessi degli altri stati della penisola, fra cui la signoria di Milano di Filippo Maria Visconti, che intervenne dapprima in favore degli angioini (battaglia di Ponza), poi definitivamente con gli Aragonesi. Nel 1441 Alfonso V conquistò Napoli e ne assunse la corona (Alfonso I di Napoli), riunificando il territorio dell'antico Stato svevo-normanno sotto la sua reggenza con il titolo di rex Utriusque Siciliae, insediando la capitale nella città campana e imponendosi, non solo militarmente, nello scenario politico italiano.

Nel 1447 poi, Filippo Maria Visconti designò Alfonso erede al ducato di Milano, arricchendo formalmente il patrimonio della corona aragonese. La nobiltà della città lombarda però, temendo l'annessione al regno di Napoli, proclamò Milano libero comune e instaurando la repubblica ambrosiana; le conseguenti rivendicazioni aragonesi e napoletane furono contrastate dalla Francia, che nel 1450 diede il sostegno politico a Francesco Sforza per impadronirsi militarmente di Milano e del ducato. L'espansionismo ottomano, che minacciava i confini del regno di Napoli, impedì ai napoletani l'intervento contro Milano, e papa Niccolò V dapprima riconobbe lo Sforza come duca di Milano, poi riuscì a coinvolgere Alfonso d'Aragona nella lega italica, un'alleanza volta a consolidare il nuovo assetto territoriale della penisola.

La corte di Napoli in quest'epoca fu una delle più raffinate e aperte alle novità culturali del Rinascimento: erano ospiti di Alfonso Lorenzo Valla, che proprio durante il soggiorno partenopeo denunciò il falso storico della donazione di Costantino, l'umanista Antonio Beccadelli e il greco Emanuele Crisolora. Ad Alfonso si deve anche la ricostruzione di Castel Nuovo. L'assetto amministrativo del regno rimase grossomodo quello dell'età angioina: furono ridimensionati però i poteri degli antichi giustizierati (Abruzzo Ultra e Citra, Contado di Molise, Terra di Lavoro, Capitanata, Principato Ultra e Citra, Basilicata, Terra di Bari, Terra d'Otranto, Calabria Ultra e Citra), che conservarono funzioni prevalentemente politiche e militari. L'amministrazione della giustizia fu invece devoluta nel 1443 alle corti baronali, nel tentativo di ricondurre le antiche gerarchie feudali nell'apparato burocratico dello Stato centrale.
È considerato un altro importante passo verso il raggiungimento dell'unità territoriale nel regno di Napoli la politica del re, volta ad incentivare pastorizia e transumanza: nel 1447 Alfonso I varò una serie di leggi, fra cui l'imposizione ai pastori abruzzesi e molisani di svernare entro i confini napoletani, nel Tavoliere, dove molti dei terreni coltivati furono trasformati anche forzatamente in pascoli. Istituì inoltre, con sede prima a Lucera e poi a Foggia, la Dogana della mena delle pecore in Puglia e l'importantissima rete dei tratturi che dall'Abruzzo (che dal 1532 avrebbe avuto il suo distaccamento della Dogana, la Doganella d'Abruzzo) conducevano alla Capitanata. Questi provvedimenti risollevarono l'economia delle città interne fra L'Aquila e la Puglia: le risorse economiche legate alla pastorizia transumante dell'appennino abruzzese un tempo si disperdevano nello Stato Pontificio, dove fino ad allora avevano svernato le mandrie.
Con i provvedimenti aragonesi le attività legate alla transumanza coinvolsero, prevalentemente entro i confini nazionali, le attività artigianali locali, i mercati e i fori boari tra Lanciano, Castel di Sangro, Campobasso, Isernia, Boiano, Agnone, Larino fino al Tavoliere, e l'apparato burocratico sorto attorno alla dogana, predisposto alla manutenzione dei tratturi e alla tutela giuridica dei pastori, divenne, sul modello del Concejo de la Mesta iberico, la prima base popolare dello Stato centrale moderno nel regno di Napoli. In misura minore lo stesso fenomeno si verificò fra Basilicata e Terra d'Otranto e le città (Venosa, Ferrandina, Matera) legate alla transumanza verso il Metaponto. Alla sua morte (1458) Alfonso divise nuovamente le corone lasciando il Regno di Napoli al suo figlio illegittimo Ferdinando (legittimato da papa Eugenio IV e nominato duca di Calabria), mentre tutti gli altri titoli della corona d'Aragona, incluso il regno di Sicilia, andarono a suo fratello
Re Alfonso lasciò quindi un regno perfettamente inserito nelle politiche italiane. La successione del figlio Ferdinando I di Napoli, detto Don Ferrante, fu sostenuta dallo stesso Francesco Sforza; i due nuovi sovrani insieme intervennero nella repubblica di Firenze e sconfissero le truppe del capitano di ventura Bartolomeo Colleoni che insidiavano i poteri locali; nel 1478 le truppe napoletane intervennero nuovamente in Toscana per arginare le conseguenze della congiura dei Pazzi, e poi in Val Padana nel 1484, alleate con Firenze e Milano, per imporre a Venezia la pace di Bagnolo.
Castello del Malconsiglio di Miglionico, dove avvenne la congiura dei baroni
Trionfo di re Ferdinando
Il potere di Ferrante però, durante la sua reggenza, rischiò seriamente di essere minacciato dalla nobiltà campana; nel 1485 tra la Basilicata e Salerno, Francesco Coppola conte di Sarno e Antonello Sanseverino principe di Salerno, con l'appoggio dello Stato Pontificio e della repubblica di Venezia, furono a capo di una rivolta con ambizioni guelfe e rivendicazioni feudali angioine contro il governo aragonese che, accentrando il potere a Napoli, minacciava la nobiltà rurale. La rivolta è conosciuta come congiura dei baroni, che venne organizzata nel castello del Malconsiglio di Miglionico e fu debellata nel 1487 grazie all'intervento di Milano e Firenze. Per un breve periodo la città dell'Aquila passò allo Stato Pontificio. Un'altra congiura filoangioina parallela, tra Abruzzo e Terra di Lavoro, fu guidata da Giovanni della Rovere nel ducato di Sora, terminata con l'intervento mediatore di papa Alessandro VI.
Nonostante gli sconvolgimenti politici, Ferrante continuò nella capitale Napoli il mecenatismo del padre Alfonso: nel 1458 sostenne la fondazione dell'Accademia Pontaniana, ampliò le mura cittadine e costruì Porta Capuana. Nel 1465 la città ospitò l'umanista greco Costantino Lascaris e il giurista Antonio D'Alessandro, nonché nel resto del regno Francesco Filelfo, Giovanni Bessarione. Alla corte dei figli di Ferdinando gli interessi umanistici presero però un carattere molto più politico, decretando fra le altre cose l'adozione definitiva del toscano come lingua letteraria anche a Napoli: è della seconda metà del XV secolo l'antologia di rime nota come Raccolta aragonese, che Lorenzo de' Medici inviò al re di Napoli Federico I, in cui si proponeva alla corte partenopea il fiorentino come modello di volgare illustre, di pari dignità letteraria con il latino. Gli intellettuali napoletani accolsero il programma culturale mediceo, reinterpretando in modo originale gli stereotipi della tradizione toscana. Sull'esempio del Boccaccio, Masuccio Salernitano già aveva steso, attorno alla metà del Quattrocento, una raccolta di novelle in cui le trovate satiriche furono portate ad esiti estremi, con invettive contro le donne e le gerarchie ecclesiastiche, tanto che la sua opera fu inserita nell'Indice dei libri proibiti dall'Inquisizione. Un vero e proprio canone letterario fu inaugurato invece da Jacopo Sannazaro che, nel suo prosimetrum Arcadia, per la prima volta espose in volgare ed in prosa i topoi pastorali e mitici della poesia bucolica virgiliana e teocritea, anticipando di secoli la tendenza del romanzo moderno e contemporaneo ad adottare come riferimento poetico un sostrato mitologico-esoterico.

L'ispirazione bucolica del Sannazaro si connotò anche come contrappeso agli stereotipi cortigiani dei petrarchisti, dei provenzali e siciliani, o dello stilnovismo; e nel ritorno ad una poetica pastorale si legge una chiara contrapposizione umanistica e filologica della mitologia classica alle icone femminili dei poeti toscani, fra cui Dante e Petrarca, che velatamente esprimevano le tendenze politiche e sociali dei comuni e delle signorie d'Italia. Sannazaro poi fu anche modello e ispirazione per i poeti dell'Accademia dell'Arcadia, che proprio dal suo romanzo presero il nome della loro scuola letteraria.
Già dalla prima grande epidemia di peste (XIV secolo) che coinvolse l'Europa, le città e l'economia del Mezzogiorno estremo furono pesantemente colpite, tanto da rendere quel territorio, che dalla prima colonizzazione greca era rimasto per secoli uno dei più produttivi del Mediterraneo, una vasta campagna spopolata. I territori costieri pianeggianti (pianura del Metaponto, Sibari, Sant'Eufemia), ormai abbandonati, erano impaludati e infestati dalla malaria, ad eccezione della piana di Seminara, dove la produzione agricola accanto a quella della seta sosteneva una debole attività economica legata alla città di Reggio.
Nel 1444 Isabella di Chiaromonte sposò Don Ferrante e portò in dote alla corona napoletana il principato di Taranto, che alla morte della regina nel 1465 fu soppresso e unito definitivamente al regno. Nel 1458 arrivò nel Mezzogiorno il combattente albanese Giorgio Castriota Scanderbeg per sostenere il re Don Ferrante contro la rivolta dei baroni. Già precedentemente lo Scanderbeg venne a sostegno della corona aragonese a Napoli sotto il regno di Alfonso I. Il condottiero albanese ottenne in Italia una serie di titoli nobiliari, e i possedimenti feudali annessi, che furono rifugio per le prime comunità di arbereschi: gli albanesi, esuli a seguito della sconfitta da parte di Maometto II del partito cristiano nei Balcani, si insediarono in zone del Molise e della Calabria, fino ad allora spopolate.
Una ripresa delle attività economiche in Puglia tornò con la concessione del ducato di Bari a Sforza Maria Sforza, figlio di Francesco Maria Sforza duca di Milano, offerta da Don Ferrante per confermare l'alleanza fra Napoli e la città lombarda. Succeduto Ludovico il Moro a Sforza Maria, gli sforzeschi trascurarono i territori pugliesi in favore della Lombardia, finché il Moro li cedette ad Isabella d'Aragona, erede legittima alla reggenza di Milano, in cambio del ducato lombardo. La nuova duchessa in Puglia iniziò una politica di miglioramento urbanistico della città, a cui seguì una leggera ripresa economica durata fino al governo della figlia Bona Sforza e alla successione al titolo regale di Napoli di Carlo V.

Nel 1542 il viceré Pedro di Toledo emise il decreto di espulsione per gli ebrei dal regno di Napoli. Le ultime comunità che già dalla grande diaspora del II secolo si erano insediate fra Brindisi e Roma sparirono dalle realtà urbane in cui avevano trovato accoglienza. Nei porti della costa pugliese e nelle principali città della Calabria, nonché con alcune deboli presenze in Terra di Lavoro, dopo la crisi dell'economia cenobitica del XVI secolo, gli ebrei erano l'unica fonte efficiente delle attività finanziarie e commerciali: oltre al privilegio esclusivo, concesso dalle amministrazioni locali, di esercitare il prestito di denaro, le loro comunità gestivano importanti settori del commercio della seta, relitto di quel sistema economico del mediterraneo che nel Mezzogiorno sopravvisse alle invasioni barbariche e al feudalesimo.
A Don Ferrante succedette il primogenito Alfonso II nel 1494. Nello stesso anno Carlo VIII di Francia scese in Italia a sconvolgere il delicato equilibrio politico che le città della penisola avevano raggiunto negli anni precedenti. L'occasione riguardò direttamente il regno di Napoli: Carlo VIII vantava una lontana parentela con gli angioini re di Napoli (la nonna paterna era figlia del Luigi II che tentò di sottrarre il trono partenopeo a Carlo di Durazzo e a Ladislao I), sufficiente per poter rivendicare il titolo regale. Con la Francia si schierò anche il ducato di Milano: Ludovico Sforza, detto il Moro, aveva spodestato gli eredi legittimi del ducato Gian Galeazzo Sforza e sua moglie Isabella d'Aragona, figlia di Alfonso II, sposi nel matrimonio con cui Milano aveva suggellato l'alleanza con la corona aragonese. Il nuovo duca di Milano non si oppose a Carlo VIII, il quale si diresse contro il regno aragonese; evitando la resistenza di Firenze, il re francese occupò in tredici giorni la Campania e poco dopo entrò in Napoli: tutte le province si sottomisero al nuovo sovrano d'oltralpe, salvo che le città di Gaeta, Tropea, Amantea e Reggio.
Gli aragonesi rifugiarono in Sicilia e cercarono il sostegno di Ferdinando il Cattolico, che inviò un contingente di truppe capitanate da Gonzalo Fernández de Córdoba che impegnarono in battaglia in Calabria lo schieramento francese. L'espansionismo francese spinse però anche il papa Alessandro VI e Massimiliano d'Asburgo a costituire una Lega contro Carlo VIII, per combatterlo e infine sconfiggerlo nella battaglia di Fornovo: alla fine del conflitto la Spagna occupò la Calabria, mentre la repubblica di Venezia acquisiva i porti principali della costa pugliese (Manfredonia, Trani, Mola, Monopoli, Brindisi, Otranto, Polignano e Gallipoli). Alfonso II morì durante le operazioni belliche, nel 1495, e Ferrandino ereditò il trono, ma gli sopravvisse un solo anno senza lasciare eredi, pur tuttavia riuscendo a ricostituire velocemente una nuova armata napoletana che al grido di "Ferro! Ferro!" (derivante dal "desperta ferro" degli Almogàver) scacciò i francesi di Carlo VIII dal Regno di Napoli.
Nel 1496 divenne re il figlio di Don Ferrante e fratello di Alfonso II, Federico I, il quale dovette nuovamente affrontare le ambizioni francesi su Napoli. Luigi XII duca d'Orléans aveva ereditato il regno di Francia dopo la morte di Carlo VIII; avendo il re d'Aragona Ferdinando il Cattolico ereditato il trono di Castiglia stipulò un accordo (Trattato di Granada, novembre 1500) con i sovrani francesi pretendenti il trono di Napoli, per spartirsi l'Italia e spodestare gli ultimi aragonesi nella penisola. Luigi XII occupò il Ducato di Milano, dove catturò Ludovico Sforza, e, d'accordo con Ferdinando il Cattolico, si mosse contro Federico I di Napoli. L'accordo fra francesi e spagnoli aveva previsto la spartizione del Regno di Napoli fra le due corone: al sovrano francese, Abruzzo e Terra di Lavoro, nonché il titolo di rex Hierosolymae e, per la prima volta, di rex Neapolis; al sovrano spagnolo, Puglia e Calabria con i titoli ducali annessi. Con tale trattato l'11 novembre del 1500 il titolo di rex Siciliae fu dichiarato decaduto dal papa Alessandro VI e unito alla corona d'Aragona.
Nell'agosto del 1501 i Francesi entrarono a Napoli; Federico I di Napoli rifugiò ad Ischia e, infine, cedette la propria sovranità al re di Francia in cambio di alcuni feudi nell'Angiò. Nonostante l'occupazione del regno fosse riuscita con successo ad entrambi, i due re non si trovarono concordi nell'attuazione del trattato di spartizione del regno: restarono indefinite le sorti della Capitanata e del Contado di Molise, sui cui territori sia francesi che spagnoli rivendicavano la sovranità. Ereditato il regno di Castiglia da Filippo il Bello, il nuovo re spagnolo cercò un secondo accordo, con Luigi XII, per cui i titoli di re di Napoli e duca di Puglia e Calabria sarebbero andati alla figlia di Luigi, Claudia, e a Carlo V, suo sposo promesso (1502).

Le truppe spagnole che occupavano Calabria e Puglia, capitanate da Gonzalo Fernández de Córdoba e fedeli a Ferdinando il Cattolico, non rispettarono però i nuovi accordi e cacciarono dal Mezzogiorno i francesi, a cui restò la sola Gaeta fino alla loro definitiva sconfitta nella battaglia del Garigliano nel dicembre 1503. I trattati di pace che seguirono non furono mai definitivi, sennonché si stabilì almeno che il titolo di re di Napoli spettasse a Carlo V e alla futura moglie Claudia. Ferdinando il Cattolico però continuò a possedere il regno considerandosi erede legittimo dello zio Alfonso I di Napoli e della antica corona aragonese di Sicilia (regnum Utriusque Siciliae).
La casa reale aragonese divenuta indigena in Italia si era estinta con Federico I e Napoli cadde sotto il controllo della corona di Spagna che vi istituì un vicereame. Il meridione d'Italia restò possedimento diretto dei sovrani iberici fino alla fine della Guerra di successione spagnola (1713). La nuova struttura amministrativa, benché fortemente centralizzata, si sosteneva sull'antico sistema feudale: i baroni ebbero modo così di rafforzare la propria autorità e i privilegi fondiari, mentre il clero vide accrescere il proprio potere politico e morale. Gli organi amministrativi più importanti avevano sede a Napoli ed erano il Consiglio Collaterale, simile al Consiglio d'Aragona, organo supremo nell'esercizio delle funzioni giuridiche (composto dal viceré e da tre giureconsulti), la Camera della Sommaria, il Tribunale della Vicaria e il Tribunale del Sacro Regio Consiglio.
Fu Ferdinando il Cattolico che, detentore dei titoli di Re di Napoli e di Sicilia, nominò viceré Gonzalo Fernández de Córdoba, che era stato fino ad allora Gran Capitano dell'esercito napoletano, affidandogli in sua vece gli stessi poteri di un re[39]. Allo stesso tempo decadeva il titolo di Gran Capitano e il comando delle truppe reali di Napoli fu affidato al conte di Tagliacozzo Fabrizio I Colonna con la nomina di Gran Conestabile e l'incarico di condurre una spedizione in Puglia, contro Venezia che occupava alcuni porti adriatici. L'operazione militare terminò con successo e i porti pugliesi tornavano nel 1509 al regno di Napoli. Re Ferdinando inoltre ristabilì il finanziamento all'università di Napoli disponendo un contributo mensile dal suo tesoro personale di 2000 ducati l'anno[39], privilegio confermato poi dal suo successore Carlo V.
Succedettero al de Córdoba prima Juan de Aragón, che promulgò una serie di leggi contro la corruzione, combatté il clientelismo, vietò il gioco d'azzardo e l'usura, e poi Raimondo de Cardona, che nel 1510 cercò di reintrodurre l'inquisizione spagnola a Napoli e i primi provvedimenti restrittivi nei confronti degli ebrei.
Carlo V
Carlo V, figlio di Filippo il Bello e Giovanna la pazza, per un complicato sistema d'eredità e parentele, si trovò a governare presto un vastissimo impero: dal padre ottenne la Borgogna e le Fiandre, dalla madre nel 1516 la Spagna, Cuba, il regno di Napoli (per la prima volta col titolo di rex Neapolis), il Regno di Sicilia e la Sardegna, nonché due anni dopo i domini austriaci dal nonno Massimiliano d'Asburgo.
Il regno di Francia, ancora una volta, venne a minacciare Napoli e il dominio di Carlo V sul Mezzogiorno: i francesi dopo aver conquistato il ducato di Milano al figlio di Ludovico il Moro, Massimiliano, furono sconfitti e cacciati dalla Lombardia da Carlo V (1515). Il re di Francia Francesco I nel 1526 entrò allora in una lega, suggellata da Clemente VII e detta lega santa, con Venezia e Firenze, per cacciare gli spagnoli da Napoli. Dopo una prima sconfitta della lega a Roma, i francesi risposero con l'intervento in Italia di Odet de Foix, che si spinse nel Regno di Napoli assediando Melfi (l'evento passerà alla storia come "Pasqua di sangue") e la stessa capitale, mentre la Serenissima occupava Otranto e Manfredonia. Nel pieno vigore della campagna militare di invasione da parte delle truppe di Francesco I re di Francia, si colloca l’episodio dell’assedio nell'estate del 1528 della città Catanzaro, rimasta fedele all’imperatore Carlo V e che si eresse ad ultimo baluardo contro l’avanzare degli invasori. Mentre Napoli, infatti, veniva accerchiata per mare e per terra, Catanzaro era stretta d'assedio da soldatesche agli ordini di Simone de Tebaldi, conte di Capaccio, e di Francesco di Loria, Signore di Tortorella, che erano scesi in armi in Calabria per occuparla, sottometterla e governarla in nome di Francesco I.
La città fortificata fu cinta d’assedio nei primi giorni del mese di giugno e resistette per circa tre mesi agli assalti sotto le mura ed affrontando con coraggio e perizia le battaglie in campo aperto; allo scadere del mese di agosto, infatti, le truppe assedianti dovettero ritirarsi sancendo in tal modo la vittoria della Città dei Tre Colli, com'è definita Catanzaro, che lo stesso Simone de Tebaldi, ritiratosi in Puglia, definì “Cità assai bona et forte. Durante l'assedio che, senza dubbio, contribuì al mantenimento del Regno di Napoli all'imperatore Carlo V, in Catanzaro fu battuta una moneta ossidionale del valore di un carlino. In quegli stessi giorni, la flotta genovese, inizialmente alleata dei francesi, si mise al soldo di Carlo V, e l'assedio di Napoli si tramutò nell'ennesima sconfitta dei nemici della Spagna, che portò poi al riconoscimento da parte di Clemente VII del titolo imperiale di re Carlo. Venezia perse definitivamente i suoi possedimenti in Puglia (1528).
Le ostilità della Francia contro i domini spagnoli in Italia però non cessarono: Enrico II, figlio di Francesco I di Francia, sollecitato da Ferrante Sanseverino, principe di Salerno, si alleò con i turchi ottomani; nell'estate del 1552 la flotta turca al comando di Sinan Pascià sorprese la flotta imperiale, al comando di Andrea Doria e don Giovanni de Mendoza, al largo di Ponza, sconfiggendola. La flotta francese però non riuscì a ricongiungersi con quella turca e l'obiettivo dell'invasione del napoletano fallì.
Nel 1555, a seguito di una serie di sconfitte in Europa, Carlo abdicò e divise i suoi domini fra Filippo II, a cui lasciò la Spagna, le colonie d'America, i Paesi Bassi spagnoli, il regno di Napoli, il regno di Sicilia e la Sardegna, e Ferdinando I d'Asburgo a cui andò l'Austria, la Boemia, l'Ungheria e il titolo di imperatore.[6][28][39]
I vicereami del duca d'Alba, di Hurtado de Mendoza e la pestilenza
I vicereami che si succedettero sotto il regno di Filippo II furono per lo più contrassegnati da operazioni belliche che non apportarono benessere alla popolazione di Napoli. A peggiorare la situazione incorse la pestilenza che si diffuse in tutta Italia attorno al 1575, anno della nomina a viceré di Íñigo López de Hurtado de Mendoza. Napoli, in quanto città portuale, fu estremamente esposta alla diffusione del morbo e le sue attività economiche principali furono minate alla base. Negli stessi anni sbarcarono prima a Trebisacce, in Calabria, poi in Puglia, le navi del sultano ottomano Murad III, che saccheggiarono i porti principali dello Jonio e dell'Adriatico. Fu necessario incrementare la militarizzazione delle coste, perciò il de Mendoza fece costruire un nuovo arsenale nel porto di Santa Lucia su progetto di Vincenzo Casali. Inoltre vietò ai funzionari pubblici di intrecciare legami sacramentali e parentele religiose.
Dalla pace di Cateau-Cambresis alla fine del dominio spagnolo
Con la pace di Cateau-Cambresis la storiografia tradizionale designa la fine delle ambizioni francesi nella penisola italiana. Il clima di riforme religiose che coinvolgeva all'epoca sia l'opposizione luterana al papato di Roma, sia la stessa chiesa cattolica, nei territori del vicereame di Napoli si contestualizzò nella crescita dell'autorità civile del clero e delle gerarchie ecclesiastiche. Nel 1524, a Roma Gian Pietro Carafa, all'epoca vescovo di Chieti, aveva fondato la congregazione dei teatini (da Teate, antico nome di Chieti) che si diffuse presto in tutto il regno, affiancata poi dai collegi dei gesuiti, che furono per secoli l'unico riferimento culturale per le province dell'Italia meridionale. Il concilio di Trento imponendo nuove regole alle diocesi, quali l'obbligo della residenza nella propria sede a vescovi, parroci e abati, l'istituzione di seminari diocesani, dei tribunali d'inquisizione e, più tardi, dei monti frumentari[52], trasformò le diocesi del vicereame di Napoli in veri e propri organi di potere, fortemente radicati nel territorio e nelle province, poiché erano l'unico sostegno sociale, giuridico e culturale al controllo dell'ordine civile. Fra gli altri ordini monastici che ebbero molto successo a Napoli in questi anni si ricordano i Carmelitani Scalzi, le suore Teresiane, i Fratelli della Carità, i Camaldolesi e la Congregazione dell'Oratorio di San Filippo Neri.
De Castro, Téllez-Girón I, Juan de Zúñiga y Avellaneda e la rivolta in Calabria
Tommaso Campanella

Il 16 luglio 1599 giunse a Napoli il nuovo viceré Fernando Ruiz de Castro. Il suo operato si limitò principalmente ad operazioni militari contro le incursioni turche in Calabria di Amurat Rais e Sinan Pascià.
Nello stesso anno della sua nomina a viceré, il domenicano Tommaso Campanella, che ne La città del Sole delineava uno Stato comunitario basato su una presunta religione naturale, organizzò una congiura contro Fernando Ruiz de Castro nella speranza di instaurare una repubblica con capitale a Stilo (Mons Pinguis). Il filosofo e astrologo calabrese già era stato prigioniero del Sant'Uffizio e confinato in Calabria: qui col sostegno dottrinale e filosofico della tradizione escatologica gioachimita[54] mosse i primi passi per persuadere monaci e religiosi ad aderire alle sue ambizioni rivoluzionarie, fomentando una congiura che si estese fino a coinvolgere non solo l'intero ordine domenicano delle Calabrie, ma anche i locali ordini minori come agostiniani e francescani, e le principali diocesi da Cassano a Reggio Calabria. Fu la prima rivolta in Europa a schierarsi contro l'ordine dei gesuiti e la loro crescente autorità spirituale e secolare. La congiura fu sedata e Campanella, che si spacciò per pazzo, scampò al rogo e all'ergastolo. Qualche anno prima (1576) a Napoli veniva processato per eresia anche un altro domenicano, il filosofo Giordano Bruno, le cui speculazioni e tesi furono ammirate successivamente da diversi studiosi dell'Europa luterana.
Il de Castro inaugurò inoltre una politica incentrata sul finanziamento statale per la costruzione di diverse opere pubbliche: sotto la direzione dell'architetto Domenico Fontana, a Napoli dispose la costruzione del nuovo palazzo reale nell'attuale piazza del Plebiscito. Caratterizzato prevalentemente da opere urbanistiche fu il mandato di Pedro Téllez-Girón y de la Cueva: costui sistemò la viabilità della capitale e delle province pugliesi. Gli succedette Juan de Zúñiga y Avellaneda, il cui governo fu orientato al recupero dell'ordine nelle province: arginò il brigantaggio negli Abruzzi con il supporto dello Stato Pontificio e in Capitanata; ammodernò la viabilità fra Napoli e la Terra di Bari. Nel 1593 furono fermati dal suo esercito gli Ottomani che tentarono di invadere la Sicilia.
Filippo III di Spagna e i vicereami di de Guzmán, Pimentel e di Pedro Fernandez de Castro
Quando a Filippo II succedette al trono di Spagna il figlio, Filippo III, l'amministrazione del vicereame di Napoli era affidata a Enrique de Guzmán, conte di Olivares. Il regno di Spagna era al suo massimo splendore, unendo la corona d'Aragona, i domini italiani, a quella di Castiglia e del Portogallo. A Napoli il governo spagnolo fu debolmente attivo nella sistemazione urbanistica della capitale: risalgono a de Guzman la costruzione della fontana del Nettuno, un monumento a Carlo I d'Angiò e la sistemazione della viabilità.
L'altro governo che operò attivamente con una discreta attività politica ed economica nel regno di Napoli fu quello del viceré Juan Alonso Pimentel de Herrera. Il nuovo sovrano dovette difendere ancora i territori del Mezzogiorno dalle incursioni navali turche e sedare le prime rivolte contro il fiscalismo, che nella capitale cominciavano a minacciare il palazzo. Per prevenire le aggressioni ottomane condusse una guerra contro Durazzo, distruggendo la città e il porto in cui trovavano asilo i corsari turchi e albanesi che spesso aggredivano le coste del regno. A Napoli tentò di combattere la delinquenza, in quegli anni sempre più in crescita, anche contro le disposizioni pontificie, opponendosi al diritto d'asilo che garantivano gli edifici di culto cattolici: per ciò alcuni suoi funzionari furono scomunicati.
La politica fortemente nazionale del Pimentel però interessò anche diverse opere urbanistiche e architettoniche: costruì viali e ampliò strade, da Poggioreale a via Chiaja; a Porto Longone, nello Stato dei Presidi dispose la costruzione dell'imponente fortezza.
Al Pimentel seguì nel 1610 Pedro Fernández de Castro, i cui interventi furono prevalentemente concentrati nella città di Napoli. Ordinò la ricostruzione dell'università, le cui lezioni dall'inizio del dominio spagnolo erano state ricoverate nei vari chiostri cittadini, finanziando un nuovo edificio e rimodernando il sistema dell'insegnamento e delle cattedre. Fiorì sotto la sua reggenza l'Accademia degli Oziosi, a cui aderì fra gli altri il Marino e il Della Porta. Costruì il collegio dei gesuiti intitolato a San Francesco Saverio e un complesso di fabbriche presso porta Nolana.[39] In Terra di Lavoro iniziò le prime opere di bonifica della pianura del Volturno, affidando a Domenico Fontana il progetto dei Regi Lagni, l'opera di canalizzazione e messa a regime delle acque del fiume Clanio tra Castel Volturno e Villa Literno, laddove fino ad allora paludi e laghi costieri (come il Lago Patria) avevano reso buona parte della Campania Felix dei romani un territorio malsano e spopolato.
Vendita di titoli nobiliari
Per alimentare il finanziamento legato alla vendita di titoli nobiliari, la corona spagnola decide di istituire altri titoli nobiliari. È del 1627 la decisione regia di introdurre in Italia altri sette titoli di principi (diventati poi dieci, nove di duca, sei di marchese ed uno di conte.) abbiamo così una vera alluvione di titoli: nel 1606: principi 27 duchi 48 marchesi 76 conti 62 nel 1629: principi 57 duchi 83 marchesi 121 conti 73 nel 1640: principi 67 duchi 107 marchesi 148 conti 67 Vera alluvione di titoli si ebbe tra il 1621 ed il 1629 nella sola Sicilia in tale periodo furono venduti ben nove titoli di principe … ma il prezzo ridotto dei titoli napoletani invogliava baroni e magistrati a ricorrere al re per acquisirne uno, che poteva anche non essere il primo
La morte di Filippo III e i governi sotto Filippo IV e Carlo II
Fu caratterizzato prevalentemente da operazioni militari il governo di Pedro Téllez-Girón y Velasco Guzmán y Tovar, che, nella guerra fra Spagna e Savoia per il Monferrato, condusse una spedizione contro la repubblica di Venezia, in quegli anni alleata della monarchia sabauda. La flotta napoletana assediò e saccheggiò Traù, Pola e l'Istria.
Gli succedette il cardinale Antonio Zapata, tra carestie e rivolte, e, dopo la morte di Filippo III, Antonio Álvarez de Toledo y Beaumont de Navarra e Fernando Afán de Ribera che dovettero affrontare i problemi di un brigantaggio nelle province sempre più diffuso e radicato. Li seguì Manuel de Acevedo y Zúñiga, che finanziò la fortificazione dei porti di Barletta, Ortona, Baia e Gaeta, con un governo fortemente impegnato nel sostegno economico dell'esercito e della flotta. Il forte impoverimento del tesoro statale comportò, sotto l'amministrazione di Ramiro Núñez de Guzmán, una devoluzione dell'amministrazione dei domini regi alle corti dei baroni, e la conseguente crescita dei poteri feudali. Sotto il regno di Carlo II si ricordano i vicereami di Fernando Fajardo y Álvarez de Toledo e Francisco de Benavides, con politiche impegnate a contenere problemi ormai endemici come il brigantaggio, clientelismo, inflazione e scarsità di risorse alimentari.
Napoli fra irrazionalismo e rivolte politiche
La tradizione umanistica e cristiana fu l'unico riferimento per le prime ambizioni rivoluzionarie a carattere nazionale che cominciarono a emergere, per la prima volta in Europa, tra Roma e Napoli, nell'irrazionalismo del barocco, nell'urbanistica popolare (quartieri spagnoli), nel misticismo religioso e nella speculazione politica e filosofica. Se nella campagna un forte ritorno all'assetto feudale ricondusse ai seminari e alle diocesi il controllo dell'arte e della cultura, Napoli fu la prima città in Italia in cui nacquero, seppur disorganizzate e ignorate dai governi, le prime forme letterarie di intolleranza al clima culturale che seguì la controriforma. Accetto, Marino e Basile per primi nella letteratura italiana trasgredirono i paradigmi poetici che prendevano come modello le opere tassiane, e con una forte spinta eversiva nei riguardi dei canoni artistici dei loro contemporanei d'Italia, rifiutarono lo studio dei classici come esempio d'armonia e stile e le teorie estetiche e linguistiche dei puristi, che nascevano con la riproposizione dottrinale del latino scolastico e liturgico (Chiabrera, Accademia della Crusca, Accademia del Cimento). Sono gli anni in cui nella commedia dell'arte napoletana si impose Pulcinella, la più celebre maschera dell'inventiva popolare meridionale. Il cosentino Tommaso Cornelio, formatosi secondo la tradizione telesiana e cosentiniana (allievo di Marco Aurelio Severino), professore di matematica e medicina, portò a Napoli nella seconda metà del XVII secolo la filosofia e la matematica di Cartesio e del Galilei, nonché la fisica e l'etica atomistica di Gassendi costituendo, in contrasto con la locale tradizione tomistica e galenica, la base delle future scuole del pensiero moderno partenopeo.
Simile per ambizioni al Campanella, ma spinto da ragioni molto più prosaiche, sotto il vicereame del duca d'Arcos Rodríguez Ponce de León, Masaniello nel 1647 fu a capo di una rivolta contro la pesante pressione fiscale spagnola. Egli riuscì ad ottenere dal viceré la costituzione di un governo popolare e, per sé, il titolo di Capitano generale del fedelissimo popolo, finché poi non fu ucciso dagli stessi rivoltosi. Prese il suo posto Gennaro Annese che con il sostegno di Enrico II di Guisa proclamò la Real Repubblica Napoletana. Il nuovo governo fu di breve durata: benché le rivolte si fossero estese alla campagna, nel 1649 le truppe spagnole guidate da Don Giovanni d'Austria ripristinarono il precedente regime. La situazione di forte repressione e di disorganizzazione della cultura napoletana, le precedenti esperienze umanistiche e filosofiche gettarono le basi per lo sviluppo degli studi giuridici ed economici che avverrà nel secolo successivo.
Le province orientali: Terra di Bari, Terra d'Otranto e Calabrie
Dal XVI secolo la stabilizzazione dei confini adriatici dopo la battaglia di Lepanto (1571) e la fine delle minacce turche sulle coste italiane portarono, salvo rare eccezionia un periodo di relativa tranquillità nell'Italia meridionale, durante il quale baroni e feudatari poterono sfruttare gli antichi diritti fondiari per consolidare privilegi economici e produttivi.
Fra il XVI e il XVII secolo sorse in Puglia e in Calabria quell'economia chiusa e provinciale che caratterizzerà le regioni fino all'Unità d'Italia: l'agricoltura per la prima volta divenne di sussistenza; gli unici prodotti destinati all'esportazione erano olio e seta, i cui tempi di produzione stabili, ciclici e ripetitivi non potevano sfuggire al controllo dell'aristocrazia fondiaria. Così tra Terra di Bari e Terra d'Otranto la produzione olearia incrementò un relativo benessere, testimoniato dal capillare sistema di masserie rurali e, in città, dal rifiorire delle opere urbanistiche e architettoniche (barocco leccese). Dopo la perdita dei domini della Serenissima nel Mediterraneo, i porti di Brindisi e Otranto rimasero un prezioso mercato di Venezia per l'approvvigionamento dei prodotti agroalimentari, persi fra gli altri anche i mercati di Ortona e Lanciano dopo la conversione dei territori abruzzesi all'economia pastorale. Molto simile la condizione delle Calabrie le cui province, prive di sbocchi commerciali e di porti competitivi, videro uno sviluppo parziale nella sola zona di Cosenza.
Attorno alle classi più abbienti fiorì un particolare tipo di umanesimo, fortemente conservatore, caratterizzato dal culto della tradizione classica latina, della retorica e del diritto. Già prima della nascita dei seminari, sacerdoti e aristocratici laici sovvenzionavano centri di cultura che costituirono, in Puglia e Calabria, l'unica forma di modernizzazione civile che le innovazioni amministrative e burocratiche del regno aragonese richiedevano, mentre l'economia e il territorio rimanevano esclusi dai cambiamenti in atto nel resto d'Europa.
Dal XV secolo scomparvero le ultime tracce della tradizione culturale e sociale greca: nel 1467 la diocesi di Hieracium abbandonava l'uso del rito greco nella liturgia in favore del latino; similmente nel 1571 la diocesi di Rossano, nel 1580 l'arcidiocesi di Reggio, nel 1586 l'arcidiocesi di Siponto e poco dopo quella di Otranto. La latinizzazione del territorio iniziata con i normanni, continuata con gli angioini, trovò il suo completamento nel XVII secolo, parallelamente al forte accentramento del potere in mano all'aristocrazia fondiaria, tra Reggio e Cosenza. In questi anni il Campanella coinvolse tali diocesi, con il sostegno di speculazioni astrologiche e filosofiche orientali, nella rivolta contro il dominio spagnolo e l'ordine dei gesuiti; furono anche gli anni del grande sviluppo delle certose di Padula e di Santo Stefano, e della nascita dell'Accademia Cosentina, che vedrà fra i suoi allievi e maestri Bernardino Telesio e Sebezio Amilio.
La successione di Carlo II e la fine del dominio spagnolo e nascita della Casata Borbone delle due Sicilie Napoletana
Già dal 1693 a Napoli, come nel resto dei domini spagnoli degli Asburgo, si iniziò a discutere delle sorti del regno di Carlo II, il quale lasciava gli Stati della sua corona senza eredi diretti. Fu in quest'occasione che nel Mezzogiorno d'Italia cominciò ad emergere una coscienza civile politicamente organizzata, trasversalmente composta sia dagli aristocratici che dai piccoli mercanti e artigiani cittadini, schierata contro i privilegi e le immunità fiscali del clero(la relativa corrente giuridica è nota agli storici come anticurialismo napoletano) e ambiziosa di fronteggiare il banditismo[67]. Questa sorta di partito nel 1700, alla morte di Carlo II, si oppose al testamento del sovrano spagnolo che designava erede delle corone spagnola e napoletana Filippo V di Borbone, duca d'Angiò, sostenendo invece le pretese di Leopoldo I d'Asburgo, il quale riteneva legittimo erede l'arciduca Carlo d'Asburgo (poi imperatore con il nome di Carlo VI). Tale dissidio politico portò il partito filo-austriaco napoletano ad un'esplicita presa di posizione antispagnola, seguita dalla rivolta nota come congiura di Macchia, poi fallita. Dopo la crisi politica il governo spagnolo tentò con la repressione di riportare l'ordine nel regno, mentre la crisi finanziaria era sempre più disastrosa. Nel 1702 fallì il Banco dell'Annunziata; in questi anni Filippo V, in viaggio a Napoli, nel 1701 condonò i debiti delle università. Gli ultimi viceré per conto della Spagna furono Luis Francisco de la Cerda y Aragón, impegnato ad arginare banditismo e contrabbando, e Juan Manuel Fernández Pacheco Cabrera, il cui mandato di governo fu impedito dalla guerra e quindi dall'occupazione austriaca del 1706.
Il trattato di Utrecht nel 1713 poneva fine alla guerra di successione spagnola: in base agli accordi sanciti dai firmatari, il regno di Napoli con la Sardegna finiva sotto il controllo di Carlo VI d'Asburgo; il regno di Sicilia invece andava ai Savoia, ristabilendo l'identità territoriale della corona del rex Siciliae, con la condizione che, una volta estinta la discendenza maschile dei Savoia, l'isola e il titolo regale annesso sarebbero tornati alla corona spagnola. Con la pace di Rastatt, un anno dopo anche Luigi XIV di Francia riconosce i domini asburgici in Italia. Nel 1718 Filippo V di Spagna tentò di ristabilire il proprio dominio a Napoli e in Sicilia con il sostegno del suo primo ministro Giulio Alberoni: contro la Spagna intervennero però direttamente Gran Bretagna, Francia, Austria e Province Unite che sconfissero la flotta di Filippo V nella battaglia di Capo Passero. Il trattato dell'Aja che ne seguì (1720) decretò il passaggio del regno di Sicilia agli Asburgo: pur mantenendosi come entità statale separata, passò insieme a Napoli sotto la corona austriaca mentre la Sardegna diventava possesso dei duchi sabaudi, con la nascita del regno di Sardegna. Carlo di Borbone veniva designato erede al trono nel Ducato di Parma e Piacenza.
L'inizio del dominio austriaco, seppur costretti ad affrontare una situazione finanziaria disastrosa, segnò una profonda riforma nelle gerarchie politiche dello Stato napoletano, a cui seguì un discreto sviluppo dei principi illuministici e riformatori. Furono da allora reperibili a Napoli, oltre che i testi cartesiani, le opere di Spinoza, Giansenio, Pascal e le espressioni della cultura tornano in diretto contrasto con il clero cittadino, sulla strada dell'anticurialismo napoletano già aperta da giuristi famosi come Francesco d'Andrea, Giuseppe Valletta e Costantino Grimaldi. Durante il vicereame austriaco, nel 1721, Pietro Giannone pubblica il suo testo più celebre, la Istoria civile del Regno di Napoli, un importantissimo riferimento culturale per lo Stato napoletano, che diviene celebre in tutta Europa (ammirato da Montesquieu) per come ripropone in termini moderni il machiavellismo e subordina al diritto civile il diritto canonico[70]. Scomunicato dall'arcivescovo di Napoli, trovò rifugio a Vienna, senza poter più tornare nell'Italia meridionale. In quest'ambiente, tra Napoli e il Cilento, visse anche Giovan Battista Vico che, nel 1723, pubblicò i suoi Principi di una scienza nuova, e Giovanni Vincenzo Gravina, studioso a Napoli di diritto canonico, il quale fondò a Roma, con Cristina di Svezia, l'accademia dell'Arcadia, riproponendo la lettura laica dei classici. Il suo allievo Metastasio proprio a Napoli formò sul Tasso e sul Marino le innovazioni poetiche che diedero al melodramma italiano fama internazionale.
I primi viceré austriaci furono Georg Adam von Martinitz e Virico Daun, seguiti dall'amministrazione del cardinale Vincenzo Grimani che, favorevole ai circoli anticuriali napoletani, attuò la prima politica di risanamento finanziario, tentando di ridurre le spese di governo e al sequestro delle rendite dei feudatari meridionali che a seguito dell'occupazione austriaca erano contumaci. I viceré che gli succedettero (Carlo Borromeo Arese ed il Daun al secondo mandato) trovarono un lieve bilancio positivo nelle entrate del regno, grazie anche al saldo delle spese che le operazioni militari avevano richiesto. Nel 1728 il viceré Michele Federico Althann istituì il pubblico Banco di San Carlo, per finanziare l'imprenditoria privata di stampo mercantilistico, ricomprare le quote di debito pubblico e liquidare la manomorta ecclesiastica Lo stesso viceré si guadagnò l'inimicizia dei gesuiti per aver tollerato la pubblicazione delle opere degli anticurialisti Giannone e del Grimaldi.
Un nuovo tentativo di invasione però operato da Filippo V di Spagna, sebbene si fosse concluso con la sconfitta di quest'ultimo, riportò il bilancio del regno nuovamente in deficit: il problema persistette per tutto il successivo periodo della dominazione austriaca; nel 1731 Aloys Thomas Raimund promosse l'istituzione di una "Giunta delle Università" per controllare i bilanci dei piccoli centri delle provincie, assieme alla Giunta della Numerazione per il riordino delle amministrazioni finanziarie, istituita nel 1732[75]. I nuovi catasti furono però ostacolati dai proprietari terrieri e dal clero, che voleva scongiurare i propositi del governo di tassare i beni ecclesiastici. L'ultimo dei viceré austriaci, Giulio Borromeo Visconti, vide l'invasione borbonica e la conseguente guerra, lasciando però ai nuovi sovrani una situazione finanziaria assai migliore rispetto a quella lasciata dai viceré spagnoli.
I Borbone

Carlo di Borbone re di Napoli
 La politica di riforme iniziata tiepidamente sotto il vicereame di Carlo VI d'Asburgo fu ripresa dalla corona dei Borbone la quale, attenta agli interessi napoletani, intraprese una serie di innovazioni amministrative e politiche, estendendole a tutto il territorio del regno. Carlo di Borbone, già duca di Parma e Piacenza, figlio di Filippo V re di Spagna e di Elisabetta Farnese, a seguito della battaglia di Bitonto, conquistò il regno di Napoli e fece il suo ingresso in città il 10 maggio 1734, assumendo il titolo di Neapolis rex, secondo la consuetudine asburgica (titolo di Carlo V); fu quindi incoronato rex utriusque Siciliae il 3 luglio 1735 nella Cattedrale di Palermo. La conquista dei due regni da parte dell'Infante fu resa possibile dalle manovre della regina di Spagna, la quale, approfittando della guerra di successione polacca nella quale Francia e Spagna combattevano il Sacro Romano Impero, rivendicò a suo figlio le province dell'Italia meridionale, ottenute nel 1734 in seguito alla battaglia di Bitonto. L'8 giugno 1735 sostituì al Consiglio Collaterale la Real Camera di Santa Chiara. Affidò la formazione del governo al conte di Santisteban e nominò Bernardo Tanucci ministro di giustizia.
Il regno non ebbe un'effettiva autonomia dalla Spagna fino alla pace di Vienna, nel 1738, con la quale si concluse la guerra di successione polacca. A causa delle ripetute guerre e dei rischi che correva Napoli, Tanucci ipotizzò lo spostamento della capitale a Melfi (già prima capitale del dominio normanno), vedendo in essa un punto altamente strategico: collocata nella zona continentale, protetta dalle montagne e lontana dalle minacce provenienti dal mare aperto.
Nell'agosto 1744 l'esercito di Carlo, forte ancora della presenza di truppe spagnole, sconfisse nella Battaglia di Velletri gli austriaci che tentavano di riconquistare il regno. Alla situazione precaria in cui versava la corona borbonica sul regno di Napoli corrispose una politica ambigua di Carlo III: egli all'inizio del suo governo cercò di assecondare le posizioni politiche delle gerarchie ecclesiastiche, favorendo l'istituzione a Palermo di un tribunale d'Inquisizione e non contrastando la scomunica di Pietro Giannone. Quando però la fine delle ostilità in Europa scongiurarono le minacce al suo titolo regale, nominò primo ministro Bernardo Tanucci, la cui politica fu rivolta subito ad arginare i privilegi ecclesiastici: nel 1741, con un concordato furono drasticamente ridotti il diritto d'asilo nelle chiese ed altre immunità al clero; i beni ecclesiastici furono sottoposti a tassazione. Successi analoghi non si ebbero tuttavia nella lotta alla feudalità nelle province periferiche del regno. In questi anni fu istituita la Giunta di Commercio per favorire la liberalizzazione del commercio, che si dimostrò un organo solo parzialmente efficace perché fortemente contrastato da chi non voleva fossero rimossi i privilegi feudali nelle aree rurali.
Le riforme tuttavia, pur restaurando i vecchi sistemi catastali, riuscirono ad imporre una tassazione ai beni ecclesiastici pari alla metà della tassazione ordinaria dei laici mentre i beni feudali restarono vincolati al sistema fiscale della adoa. L'Erario si giovò dei nuovi provvedimenti e contemporaneamente vi fu un sensibile sviluppo dell'economia, l'aumento della produzione agricola e degli scambi commerciali connessi. Nel 1755 fu istituita presso l'Università di Napoli la prima cattedra di economia in Europa, denominata cattedra di commercio e di meccanica. I corsi (in italiano e non in latino) furono tenuti da Antonio Genovesi che, persa la cattedra di teologia a seguito di accuse nei suoi riguardi di ateismo, continuò i suoi studi nell'economia e nell'etica. I successi ottenuti inaugurarono un progetto d'intervento più radicale da compiersi nella Terra di Lavoro. Il primo passo interessò la costruzione della reggia di Caserta e la modernizzazione urbanistica dell'omonima città, che fu riedificata sui disegni razionalistici di Luigi Vanvitelli. Negli stessi anni nel cuore della capitale del regno invece Giuseppe Sammartino realizzava uno fra i più celebri complessi scultorei d'Italia, nella Cappella Sansevero: la cura estremamente formale e la modernizzazione stilistica di cui erano dotate le sue opere generarono polemiche negli ambienti cattolici napoletani, abituati agli esiti artistici del manierismo e del barocco.
Presso il palazzo reale di Portici, che sarebbe dovuto essere la residenza di Carlo III prima della costruzione della Reggia di Caserta, il re istituì un grande museo archeologico in cui furono raccolti i reperti dei recenti scavi di Ercolano e Pompeii. Per la prima volta in Italia, dall'istituzione del ghetto di Roma, a Napoli fu promulgata in questi anni una legge per garantire agli ebrei, espulsi dal regno due secoli prima, gli stessi diritti di cittadinanza (ad esclusione della possibilità di possedere titoli feudali) riservati fino ad allora ai cattolici.
Re Ferdinando IV

Nel 1759 re Ferdinando VI di Spagna, nonché fratello di Carlo III di Napoli, muore. Non lasciando eredi diretti il trono deve essere assunto da Carlo che, rispettando il trattato dei due regni che stabiliva che le due corone non dovessero mai essere unite, deve scegliere un successore per i due regni di Napoli e Sicilia. Colui che fino ad allora era stato considerato l'erede al Trono, Filippo, nato il 13 giugno 1747, verrà messo sotto osservazione per due settimane da un comitato composto da alti funzionari, magistrati e sei medici per valutare il suo stato mentale. Il loro verdetto fu la sua completa imbecillità, escludendolo così dal Trono. Il secondogenito Carlo Antonio, nato nel 1748, invece seguirà il padre come erede del Trono di Spagna. La scelta quindi cade sul terzogenito Ferdinando, nato il 12 gennaio 1751, che assunse il titolo di Ferdinando IV di Napoli.
La sua nascita non fu considerato un evento speciale: al contrario dei suoi fratelli maggiori, non furono scelte come nutrici dame nobili, ma una popolana di nome Agnese Rivelli, una donna bella e grassa ma ignorante. Era diventato consuetudine nella corte di Napoli, prendendo esempio da quella di Spagna, affiancare al principino un popolano della stessa età. Egli, chiamato menino, doveva essere sgridato al posto del principe, il quale in questo modo doveva capire che, se un giorno fosse divenuto re, nel caso avesse fatto errori durante il suo governo, il male sarebbe caduto sull'intero popolo. Agnese Rivelli presentò ai reali per questo il figlio Gennaro. Questo sarebbe diventato amico inseparabile di Ferdinando ed in effetti Ferdinando impediva che il menino fosse sgridato al suo posto.
Queste le parole di Carlo III di Napoli al momento dell'abdicazione: “Raccomando umilmente a Dio l'Infante Ferdinando che in questo medesimo istante diventa mio successore. A lui lascio il regno di Napoli con la mia paterna benedizione, affidandogli il compito di difendere la religione cattolica e raccomandandogli la giustizia, la clemenza, la cura, l'amore per i popoli, che avendomi fedelmente servito e obbedito, hanno diritto alla benevolenza della mia reale famiglia”. Ferdinando allora aveva solo 8 anni e per questo fu costituito dallo stesso Carlo III un Consiglio di Reggenza. Principali esponenti furono Domenico Cattaneo, principe di San Nicandro ed il marchese Bernardo Tanucci, quest'ultimo il capo del Consiglio di Reggenza. Durante il periodo della reggenza ed in quello successivo, fu principalmente il Tanucci ad avere in mano le redini del Regno ed a continuare le riforme iniziate in età carolina. In campo giuridico, molti progressi furono resi possibili dall'appoggio dato al ministro Tanucci da Gaetano Filangieri, il quale, con la sua opera "Scienza della legislazione" (iniziata nel 1777), può essere considerato tra i precursori del diritto moderno. Nel 1767 il re emise l'atto di espulsione nei confronti dei gesuiti dal territorio del regno che ne comportò l'alienazione dei beni, conventi e centri di cultura, sei anni prima che papa Clemente XIV decretasse la soppressione dell'ordine.
Nel frattempo Ferdinando invece passava le sue giornate giocando con il suo amico Gennaro, vestendosi e mescolandosi con i popolani, i quali lo trattavano e gli parlavano in assoluta libertà. Il 12 gennaio 1767 Ferdinando, avendo raggiunto i 16 anni, divenne re con pieni poteri. In quello stesso giorno il Consiglio di Reggenza divenne Consiglio di Stato. Al momento della cerimonia però Ferdinando non si trovò. Egli infatti, dimentico dell'importante avvenimento, era con i suoi amati lipariti, un corpo scelto di allievi con i quali giocava a fare la guerra. Di fatto fu ancora il Tanucci a governare. Egli, continuando a intrattenere rapporti con l'ormai ex re di Napoli e con l'imperatrice Maria Teresa d'Austria, organizzò ripetuti tentativi di sposare Ferdinando a un'arciduchessa austriaca, facendolo fidanzare con diverse figlie dell'imperatrice, che tuttavia morirono tutte prima delle nozze. Alla fine i suoi sforzi diedero frutti, risolvendosi però nella fine della sua carriera politica.
Nel 1768 Ferdinando sposò infatti Maria Carolina d'Asburgo-Lorena, figlia dell'imperatrice Maria Teresa e sorella della regina di Francia Maria Antonietta. Come di consuetudine prima del matrimonio fu stipulato un contratto matrimoniale il quale prevedeva che Maria Carolina dovesse partecipare al Consiglio di Stato una volta dato alla luce l'erede maschio. L'anno dopo Ferdinando IV conoscerà il cognato Pietro Leopoldo, allora granduca di Toscana, nonché fratello di Carolina e marito di Maria Luisa, sorella di Ferdinando. Spesso Ferdinando, per la sua ignoranza, rimaneva a lungo in silenzio.
In questi stessi anni si sviluppano le associazioni massoniche, che basano i loro ideali sulla libertà e l'uguaglianza di ogni individuo. Ciò non è mal visto da Maria Carolina, la quale al pari degli altri regnanti considera il suo titolo divino, ma al contrario di altri e al pari della sua famiglia crede che tra i suoi compiti ci deve essere la felicità dei suoi popoli; esse erano però avversate dai conservatori, tra i quali Tanucci. Costui tuttavia vede diminuire il suo prestigio nel 1775 quando Maria Carolina, dopo aver dato il primo figlio maschio alla luce, Carlo Tito, entra a far parte del Consiglio di Stato. Maria Carolina parteciperà più attivamente alla vita politica rispetto al marito e spesso lo sostituirà.
Nel 1776 Tanucci segnò il suo ultimo successo, rendendosi promotore dell'abolizione di un simbolico atto di vassallaggio, l'omaggio della chinèa, che rendeva formalmente il regno di Napoli uno Stato tributario del pontefice di Roma. Nel 1777 il ministro fu sostituito dal siciliano Marchese della Sambuca, uomo più gradito a Maria Carolina, che proprio Tanucci aveva portato a Napoli. Quanto a Ferdinando, il 14 luglio 1796 dichiarava soppresso il ducato di Sora, insieme allo Stato dei Presidi le ultime tracce delle signorie rinascimentali in Italia, e disponeva il compenso da versare al duca Antonio II Boncompagni. Si impegnò inoltre personalmente nella politica di riforma territoriale inaugurata da suo padre: in Terra di Lavoro dispose la costruzione della colonia industriale di San Leucio (1789), interessante esperimento di legislazione sociale e di sviluppo manifatturiero.
Nel 1778 arrivò a Napoli John Acton, uomo della marina militare del Granducato di Toscana, che la regina Maria Carolina aveva strappato al fratello Leopoldo. I reali di Napoli e Sicilia dovevano rivedere gli accordi con stati terzi in fatto di pesca, di navigazione mercantile e bellica, eliminare gli istituti aragonesi. Nel 1783 si venne a sapere che il primo ministro Marchese della Sambuca aveva lucrato sul tesoro in tutti i modi possibili, per esempio ricomprandosi a poco prezzo tutti i possedimenti espropriati ai gesuiti di Palermo. Nonostante ciò il suo governo si protrasse fino al 1784, quando si scoprì che fu uno dei tanti che mise in giro la notizia che John Acton e Maria Carolina fossero amanti. Non si è mai saputo se ciò fosse vero, fatto sta che Maria Carolina convinse Ferdinando che invece era falso. Divenne primo ministro il settantunenne marchese Domenico Caracciolo, già viceré di Sicilia, mentre John Acton divenne Consigliere reale. Lo stesso Acton succederà a Caracciolo il 16 luglio 1789, giorno della sua morte.
Tutti questi avvenimenti prepararono il terreno alla Repubblica Napoletana del 1799. Infatti Maria Carolina, che nei primi anni di regno si era mostrata sensibile alle istanze di rinnovamento e moderatamente favorevole alla promozione delle libertà individuali, compì una brusca inversione di rotta dopo la Rivoluzione Francese, che sfociò in aperta repressione, alla notizia della decapitazione dei regnanti francesi e di converso si espresse nel sostegno napoletano alla presenza militare britannica nel mar Mediterraneo. Le misure repressive portarono ad un'insanabile frattura tra la monarchia e la classe intellettuale; le pene colpirono non solo i democratici, ma anche riformisti di sicura fede monarchica, che così non esitarono ad abbracciare la causa repubblicana nel 1799. L'avanzata delle truppe francesi in Italia cominciò con la campagna del generale Napoleone Bonaparte, nel 1796. Nel 1798 le navi francesi presero Malta; in precedenza, nel gennaio 1798, i francesi avevano occupato anche Roma. la decisione di Maria Carolina, sostenuta dall'ammiraglio britannico Horatio Nelson e dall'ambasciatore William Hamilton, di aderire alla seconda coalizione antifrancese e di autorizzare l'intervento militare delle truppe napoletane nello Stato Pontificio si concluse con una catastrofe. L'esercito napoletano, capitanato dal generale austriaco Karl Mack e costituito da circa 116.000 uomini, dopo aver inizialmente raggiunto Roma, subì una serie di pesanti sconfitte e si disgregò nella ritirata. Il Regno fu aperto così all'invasione dell'armata francese del generale Jean Étienne Championnet.
La Repubblica napoletana e la riconquista borbonica

Il 22 dicembre 1798 il re Ferdinando IV fuggì a Palermo, lasciando il governo al marchese di Laino Francesco Pignatelli, col titolo di vicario generale, e a Napoli la sola debole resistenza popolare dei lazzari contro i militari d'oltralpe. Dalle rivolte popolari, che intanto si erano estese fino all'Abruzzo, il Pignatelli però non raccolse una resistenza organizzata, e l'11 gennaio 1799 firmò l'armistizio di Sparanise, dopo che i francesi ebbero occupato Capua.
Tredici giorni dopo, il 22 gennaio 1799 a Napoli, i “cosiddetti patrioti” napoletani proclamarono la nascita di un nuovo Stato, la Repubblica Napoletana, anticipando il progetto francese d'istituire nel Mezzogiorno napoletano un governo d'occupazione. Il comandante francese Jean Étienne Championnet entrato nella capitale approvò le istituzioni dei patrioti e riconobbe il farmacista Carlo Lauberg capo della repubblica. Il Lauberg quindi, forte del sostegno francese, in questi anni fondò insieme a Eleonora Pimentel Fonseca il Monitore Napoletano, celebre giornale di propaganda rivoluzionaria e repubblicana.
« Siam liberi infine, ed è giunto anche per noi il giorno, in cui possiam pronunciare i sacri nomi di libertà, e di uguaglianza, ed annunciare alla Repubblica Madre, come suoi degni figliuoli; a' popoli liberi d'Italia, e d'Europa, come loro degni confratelli. »
Il nuovo governo inoltre partecipava direttamente all'esperienza rivoluzionaria francese inviando al direttorio di Parigi la propria rappresentanza, detta deputazione napoletana[82], e tentò subito delle innovazioni come l'eversione della feudalità, il progetto giansenista di creare una chiesa nazionale indipendente dal vescovo di Roma[83] e il progetto costituzionale della Repubblica realizzato da Mario Pagano che, nonostante rimase inapplicato, è considerato un importante documento che anticipò le basi del moderno ordinamento italiano, in particolare quello giudiziario.
Già il 23 gennaio 1799 furono emanate le Istruzioni generali del Governo provvisorio della Repubblica Napoletana ai Patriotti, una sorta di primo programma di governo. I progetti politici però non riuscirono a trovare pratica attuazione nei soli cinque mesi di vita della Repubblica; il 13 giugno 1799 infatti l'armata popolare sanfedista organizzata attorno al cardinale Fabrizio Ruffo riconquistò il Mezzogiorno, restituendo i territori del regno alla monarchia borbonica esule a Palermo.[84] Dopo la riconquista borbonica, la sede della corte ufficialmente restò in Sicilia, ma già nell'estate del 1799 a Napoli furono istituiti degli organi amministrativi quali la Giunta di Governo, la Giunta di Stato e la Giunta Ecclesiastica; la Segreteria degli Affari Esteri era affidata all'Acton che ne gestiva le cariche ancora da Palermo. Nei mesi seguenti una giunta nominata da Ferdinando cominciò i processi contro i repubblicani.[85] 124 filogiacobini, tra cui Pagano, la Fonseca, Pasquale Baffi, Domenico Cirillo, Ignazio Ciaia, Luisa Sanfelice e Michele Granata, furono condannati a morte.
La reazione regia e la prima restaurazione
Cardinal Fabrizio Ruffo, comandante dei Sanfedisti


Sul finire dell'estate del 1799 gli ex giacobini catturati ed imprigionati erano 1396. Il governo di Napoli era stato affidato intanto da Ferdinando IV al cardinale Fabrizio Ruffo, eletto con l'occasione luogotenente e capitano generale del Regno di Sicilia citeriore, con un titolo che anticipò ufficiosamente la futura denominazione di Regno delle Due Sicilie che prima Murat e, dopo il congresso di Vienna, Ferdinando IV, utilizzarono per designare il regno. La monarchia restaurata, in cerca del sostegno incondizionato del clero, vistasi minacciata dalle innovazioni giuridiche e amministrative che in parte gli stessi Borbone avevano portato a Napoli già dal XVIII secolo, fu caratterizzata da una svolta oscurantista: mise subito in pratica i propri disegni politici anche con l'eliminazione fisica dei principali esponenti repubblicani e con l'ostracismo verso chi aveva guadagnato celebrità durante la repubblica. Allo stesso tempo, per ricondurre entro la nuova politica conservatrice anche i sacerdoti e i monaci che, su posizioni più o meno gianseniste, avevano precedentemente aderito alla rivoluzione, il nuovo governo incaricò, con dispacci e lettere ufficiali, direttamente i vescovi di controllare tutti gli istituti religiosi delle rispettive diocesi affinché ovunque fosse rispettata l'ortodossia tridentina[86]. Re Ferdinando si rifugiò a Palermo restando re di Sicilia.
Il 27 settembre 1799 l'esercito napoletano conquistò Roma mettendo fine all'esperienza repubblicana rivoluzionaria anche nello Stato Pontificio, reinsediandovi quindi il principato del Papa. Nel 1801 gli interventi militari napoletani, nel tentativo di raggiungere la Repubblica Cisalpina, si spinsero fino a Siena, dove si scontrarono senza successo con le truppe d'occupazione francesi di Gioacchino Murat. Alla sconfitta delle truppe borboniche seguì l'armistizio di Foligno, il 18 febbraio 1801, e in seguito la pace di Firenze tra i sovrani di Napoli e Napoleone; in questi anni furono varati anche una serie di indulti che permisero a molti giacobini napoletani di uscire dalle carceri. Con la pace di Amiens invece, stipulata dalle potenze europee nel 1802, il Mezzogiorno fu provvisoriamente liberate dalle truppe francesi, inglesi e russe, e la corte borbonica da Palermo tornò ad insediarsi ufficialmente a Napoli. Due anni più tardi furono riaperte le porte del regno ai gesuiti, mentre già dal 1805 i francesi tornarono ad occupare il regno, stanziando in Puglia un presidio militare.
Il periodo napoleonico
Giuseppe Bonaparte
Il successivo quinquennio vide il Regno seguire una politica altalenante nei confronti della Francia napoleonica che, per quanto ormai egemone sul continente, rimase sostanzialmente sulla difensiva sui mari: questa situazione non consentì al Regno napoletano, strategicamente posizionato nel Mediterraneo, di mantenere una stretta neutralità nel conflitto a tutto campo fra francesi e inglesi, i quali a loro volta minacciavano di invadere e conquistare la Sicilia.
Dopo la vittoria di Austerlitz del 2 dicembre 1805, Napoleone Bonaparte regolò definitivamente i conti con Napoli: promosse l'occupazione del napoletano, condotta con successo dal Gouvion-Saint Cyr e dal Reynier, e dichiarò quindi decaduta la dinastia borbonica, che l'11 aprile dello stesso anno era entrata nella terza coalizione antifrancese, palesemente ostile a Napoleone. Ferdinando con la sua corte se ne tornò a Palermo, sotto la protezione inglese. L'imperatore dei francesi nominò quindi il fratello Giuseppe Re di Napoli. Intanto nelle province del Mezzogiorno (soprattutto in Basilicata e Calabria) tornò ad organizzarsi la resistenza antinapoleonica: fra i vari capitani degli insorti filoborbonici (tra cui vi erano sia militari di professione che banditi comuni) si distinsero, in Calabria e Terra di Lavoro, il brigante di Itri Michele Pezza, detto Fra Diavolo, e in Basilicata il colonnello Alessandro Mandarini di Maratea. La repressione del moto antifrancese fu affidata, principalmente, ai generali André Massena e Jean Maximilien Lamarque i quali riuscirono a frenare la ribellione, anche se con espedienti estremamente crudeli, come accadde ad esempio nel cosiddetto massacro di Lauria, perpetrato dai soldati di Massena.
Sotto un'amministrazione prevalentemente straniera, composta dal còrso Cristoforo Saliceti, Andrea Miot e Pier Luigi Roederer, furono tentate, ancora una volta, e finalmente per buona parte attuate, riforme radicali quali l'eversione della feudalità e la soppressione degli ordini regolari; in più furono istituiti l'imposta fondiaria e un nuovo catasto onciario.
« La feudalità con tutte le sue attribuzioni resta abolita. Tutte le giurisdizioni sinora baronali, ed i proventi qualunque che vi siano stati annessi, sono reintegrati alla sovranità, dalla quale saranno inseparabili »
La lotta alla feudalità fu efficace anche grazie al contributo di Giuseppe Zurlo e dei giuristi componenti l'apposita Commissione, che, presieduta da David Winspeare (già al servizio dei Borbone in veste di mediatore fra la corte di Palermo e le truppe francesi nel Mezzogiorno), ebbe l'incarico di dirimere le controversie tra municipi e baroni, e alla fine riuscì a produrre un taglio netto col passato e dunque la nascita della proprietà borghese anche nel Regno di Napoli, sostenuta poi dallo stesso Gioacchino Murat. A fianco di una serie di riforme che coivolsero anche il sistema tributario e giuridico, il nuovo governo istituì il primo sistema di province, distretti e circondari del regno, ad organizzazione civile, con a capo rispettivamente un intendente, un sottintendente e un governatore, poi giudice di pace. Le nuove province erano Teramo, L'Aquila, Chieti, Molise (con capoluogo Campobasso), Terra di Lavoro (con capoluogo Capua), Capitanata (con capoluogo Foggia), Benevento, Napoli, Salerno, Potenza, Bari, Lecce, Cosenza, Catanzaro e Reggio Calabria. Infine l'alienazione dei beni dei monasteri e dei feudatari attirò a Napoli un cospicuo numero di investitori francesi, gli unici in grado, insieme ai vecchi nobili locali, di disporre dei capitali necessari per acquistare terreni e beni immobili. Sull'esempio della Legion d'onore in Francia, Giuseppe Bonaparte istituì a Napoli l'Ordine Reale delle Due Sicilie per conferire riconoscimenti ai meriti delle nuove personalità che si distinguevano nello Stato riformato[88].
Gioacchino Murat

A Giuseppe Bonaparte, nel 1808 destinato a regnare sulla Spagna, succedette Gioacchino Murat, che fu incoronato da Napoleone il 1º agosto dello stesso anno, col nome di Gioacchino Napoleone, re delle Due Sicilie,[89] par la grace de Dieu et par la Constitution de l'Etat, in ottemperanza allo Statuto di Baiona che fu concesso al regno di Napoli da Giuseppe Bonaparte. Il nuovo sovrano catturò immediatamente la benevolenza dei cittadini liberando Capri dall'occupazione inglese, risalente al 1805. Aggregò poi il distretto di Larino alla provincia di Molise. Fondò, con decreto del 18 novembre 1808, il Corpo degli ingegneri di Ponti e Strade e avviò opere pubbliche di rilievo non solo a Napoli (il ponte della Sanità, via Posillipo, nuovi scavi ad Ercolano, il Campo di Marte), ma anche nel resto del Regno: l'illuminazione pubblica a Reggio di Calabria, il progetto del Borgo Nuovo di Bari, l'istituzione dell'ospedale San Carlo di Potenza e l'ammodernamento della viabilità nelle montagne d'Abruzzo. Fu promotore del Codice Napoleone, entrato in vigore nel regno il 1º gennaio 1809, un nuovo sistema legislativo civile che, fra le altre cose, consentiva per la prima volta in Italia il divorzio e il matrimonio civile: il codice suscitò subito polemiche nel clero più conservatore, che vedeva sottratto alle parrocchie il privilegio della gestione delle politiche familiari, risalente al 1560. Nel 1812, grazie alle politiche del Murat, fu impiantata la prima cartiera del regno a sistema di produzione moderno presso Isola del Liri, nell'edificio del soppresso convento dei carmelitani, ad opera dell'industriale francese Carlo Antonio Beranger.
La campagna militare del Murat nell'Italia settentrionale.
Nel 1808, il sovrano incaricò il generale Charles Antoine Manhès di soffocare la recrudescenza del brigantaggio nel Regno, distinguendosi con metodi talmente feroci da essere soprannominato "Lo Sterminatore" dai calabresi. Dopo aver domato con poche difficoltà le rivolte nel Cilento e negli Abruzzi, Manhès pose il suo quartier generale a Potenza, proseguendo con successo l'attività repressiva nelle restanti zone meridionali, soprattutto in Basilicata e Calabria, province più vicine alla Sicilia, da cui i briganti ricevevano supporto dalla corte borbonica in esilio.
Nell'estate del 1810 Murat tentò uno sbarco in Sicilia per riunire politicamente l'isola al continente; giunse a Scilla il 3 giugno dello stesso anno e vi restò sino al 5 luglio, quando fu completato un grande accampamento presso Piale, frazione di Villa San Giovanni, dove il re si stabilì con la corte, i ministri e le più alte cariche civili e militari. Il 26 settembre poi, constatando impresa difficile la conquista della Sicilia, Murat dismise l'accampamento di Piale e ripartì per la capitale.
Grazie allo statuto di Baiona, la costituzione con cui Murat era stato proclamato da Napoleone re delle due Sicilie, il nuovo sovrano si considerava svincolato dal vassallaggio nei confronti dell'antica gerarchia francese, rappresentata a Napoli da molti funzionari nominati da Giuseppe Bonaparte, e forte di questa linea politica, trovò maggior sostegno nei cittadini napoletani, che videro pure di buon occhio la partecipazione del Murat a diverse cerimonie religiose e la concessione regia di alcuni titoli dell'Ordine Reale delle Due Sicilie a vescovi e sacerdoti cattolici. Re Gioacchino prese parte fino al 1813 alle campagne napoleoniche, ma la crisi politica del Bonaparte non fu un ostacolo alla sua politica internazionale. Cercò fino al congresso di Vienna il sostegno delle potenze europee, schierando le truppe napoletane anche contro la Francia ed il Regno napoleonico d'Italia, sostenendo invece l'esercito austriaco che scendeva a sud per la conquista della Val Padana: con l'occasione occupò le Marche, l'Umbria e l'Emilia-Romagna fino a Modena e Reggio Emilia, bene accolto dalle popolazioni locali. Conservò più a lungo la corona, ma non si liberò dell'ostilità britannica e della nuova Francia di Luigi XVIII, inimicizie che impedirono l'invito di una delegazione napoletana al Congresso, e così ogni sanzione alla occupazione napoletana di Umbria, Marche e Legazioni, risalenti alla campagna del 1814. Tale incertezza politica spinse il re ad una mossa azzardata: prese contatto con Napoleone all'isola d'Elba e si accordò con l'imperatore in esilio, in vista del tentativo dei Cento giorni. Murat diede inizio alla guerra austro-napoletana, attaccando gli stati alleati dell'Impero austriaco; a seguito di questa seconda svolta militare, Murat lanciò il famoso Proclama di Rimini, un appello all'unione dei popoli italiani, convenzionalmente considerato l'inizio del Risorgimento. La campagna unitaria però naufragò il 4 maggio 1815, quando gli austriaci lo sconfissero nella battaglia di Tolentino: col trattato di Casalanza infine, firmato presso Capua il 20 maggio 1815 dai generali austriaci e murattiani, il regno di Napoli tornava alla corona borbonica.[98] L'epopea murattiana terminò con l'ultima spedizione navale che il generale tentò dalla Corsica verso Napoli, dirottata poi verso la Calabria dove, a Pizzo Calabro, Murat fu catturato e fucilato sul posto.[88][99]
La Restaurazione e il Regno delle Due Sicilie
Ferdinando I re delle Due Sicilie, già Ferdinando IV re di Napoli e Ferdinando III re di Sicilia
Dopo la Restaurazione, con il ritorno dei Borbone sul trono di Napoli, i due regni di Napoli e di Sicilia nel dicembre 1816 furono uniti in un'unica entità statuale, il regno delle Due Sicilie, che ebbe vita fino al 1861, quando, in seguito alla spedizione dei mille e all'intervento militare del Piemonte, le Due Sicilie furono annesse al nascente Regno d'Italia. Il nuovo regno conservò il sistema amministrativo napoleonico, secondo una linea di governo adottata da tutti gli stati restaurati, in cui si iscrisse, a Napoli, il programma politico borbonico, fortemente conservatore. Il ministero di Polizia fu affidato ad Antonio Capece Minutolo Principe di Canosa, mentre quello delle Finanze a Luigi de' Medici, appartenente al ramo mediceo dei Principi di Ottajano, e quello di Giustizia e degli Affari Ecclesiastici a Donato Tommasi, principali sostenitori della restaurazione cattolica napoletana. Per la prima volta inoltre il re, che aveva assunto il titolo di Ferdinando I delle Due Sicilie, si mostrò disponibile ad accordi politici con la Santa Sede, fino a promuovere il concordato di Terracina, del 16 febbraio 1818, per cui venivano definitivamente aboliti i privilegi fiscali e giuridici del clero nel napoletano, rafforzandone però i diritti patrimoniali e incrementandone i beni. Lo Stato fu caratterizzato da una politica fortemente confessionale, sostenendo le missioni popolari dei passionisti e dei gesuiti e i collegi dei barnabiti, di formazione anti-regalista, e per la prima volta adottando la religione nazionale come pretesto per sedare le rivolte popolari (moti del '21).

Dalla sua formazione fino all'unità d'Italia il territorio occupato dal regno di Napoli rimase compreso pressappoco sempre entro gli stessi confini e l'unità territoriale fu solo debolmente minacciata dal feudalesimo (Principato di Taranto, Ducato di Sora, Ducato di Bari) e dalle incursioni dei corsari barbareschi. Occupava grossomodo tutta la parte della penisola italiana che oggi è conosciuta come Mezzogiorno, dai fiumi Tronto e Liri, dai monti Simbruini a nord, fino al capo d'Otranto e al capo Spartivento. La lunga catena appenninica che vi si sviluppa era tradizionalmente divisa in Appennino abruzzese ai confini con lo Stato Pontificio, Appennino napoletano dal Molise al Pollino e Appennino calabrese dalla Sila all'Aspromonte. Fra i fiumi maggiori, il Garigliano e il Volturno: gli unici navigabili. Appartenevano al regno le isole dell'arcipelago campano, le isole ponziane e Tremiti, nonché a seconda del periodo storico, la Sicilia, le Egadi, le Lipari, Pantelleria, Ustica, e lo Stato dei Presidi. Lo Stato era diviso in giustizierati o province, con a capo un giustiziere, attorno a cui ruotava un sistema di funzionari che lo aiutavano nell'amministrazione della giustizia e nelle riscossioni delle entrate tributarie. Ogni città capoluogo dei giustizierati ospitava un tribunale, un presidio militare e una zecca (non sempre attiva).
Economia
Il regno di Napoli nacque in un periodo molto critico per l'economia del Mediterraneo. Se i territori che occupava furono in età classica fra i più ricchi e fiorenti della storia antica, con l'interruzione dell'unità territoriale dell'ex impero romano, il Mezzogiorno attraversò un periodo di declino, interrotto con la creazione dello stato unitario normanno nell'Italia Meridionale. Le crociate contro il mondo arabo prima, che tra Calabria, Basilicata e Sicilia avevano restaurato un clima di benessere economico, e la divisione del regno federiciano in Sicilia citeriore e Sicilia ulteriore consolidarono nelle province napoletane l'assetto amministrativo normanno, moderno ed efficiente per i tempi, imponendo definitivamente il feudo e il latifondo come il principale sistema economico e produttivo in grado di conciliarsi con l'unità dello Stato centrale. È da ricordare che il Regno di Sicilia, comprendente anche i territori di Napoli, fu uno dei più ricchi nell'Europa medievale e lo rimase fino al declino della dinastia angioina.
Nonostante la grande perdita di risorse economiche -in particolare di quelle siciliane (causata dalla "secessione" seguita ai noti Vespri)- venutasi a creare in seguito alle dispendiose politiche estere intraprese dagli Angioini, il regno conobbe grazie a questo suo respiro internazionale varie relazioni mercantili che successivamente consentirono durante il periodo aragonese una nuova sensibile crescita economica. In particolare i commerci fiorirono con la penisola iberica, con l'Adriatico, con il Mar del Nord ed il Baltico grazie a rapporti privilegiati con la lega Anseatica[109]. Gaeta, Napoli, Reggio Calabria e i porti della Puglia furono i più importanti sbocchi commerciali del regno, che mettevano in comunicazione le province interne con l'Aragona, la Francia, e, tramite Bari, Trani, Brindisi e Taranto, con l'oriente, la Terra Santa e i territori di Venezia. Fu così inoltre che la Puglia divenne un importante centro di approvvigionamento per i mercati europei di prodotti tipicamente mediterranei come olio e vino, mentre in Calabria, a Reggio, poteva sopravvivere il mercato e la coltura della seta, introdotta dagli arabi.
Dall'età aragonese la pastorizia divenne un'altra delle risorse fondamentali del regno: tra Abruzzo e Capitanata la produzione della lana grezza destinata ai mercati fiorentini, del merletto e, in Molise, l'artigianato legato alla lavorazione del ferro (coltelli, campane), divennero fino al principio dell'età moderna le più importanti industrie inserite nelle esigenze dei mercati europei. Con lo sviluppo dell'industrializzazione il regno di Napoli fu coinvolto nei processi di modernizzazione dei sistemi di produzione e scambio commerciale: si ricorda lo sviluppo dell'industria della carta a Sora e Venafro (Terra di Lavoro), della seta a Caserta e Reggio Calabria, del tessile a San Leucio, Salerno, Pagani e Sarno, della siderurgia a Mongiana, Ferdinandea e Razzona di Cardinale in Calabria, metalmeccanico nel bacino di Napoli, cantieristico a Napoli e Castellammare di Stabia, della lavorazione del corallo a Torre del Greco, del sapone a Castellammare di Stabia, Marciano e Pozzuoli.
Nonostante le difficili condizioni storiche, che a volte causarono l'esclusione del regno di Napoli dalle principali direttrici dello sviluppo economico, il porto della capitale e la stessa città di Napoli, occupando una posizione strategica e centrale nel Mediterraneo, furono per secoli tra i più vivi e attivi centri economici europei, tanto da attirare mercanti e banchieri da tutte le principali città europee. Il commercio si sviluppò anche contro le ostilità dei turchi che con le loro incursioni erano un pesante inibitore dell'economia navale e del commercio marittimo, fattore questo che rese necessario un rafforzamento della Marina militare e mercantile in epoca borbonica.
Religione
Sant'Alfonso Maria de' Liguori, fondatore dei redentoristi.
Una discreta convivenza di costumi, religioni, fedi e dottrine diverse che altrove erano in guerra, fu invece possibile nei territori del regno di Napoli, grazie alla posizione centrale che occupa il Mezzogiorno nel Mediterraneo. Dall'inizio del dominio angioino si impose a Napoli il cattolicesimo come religione di Stato e dei sovrani, e la chiesa cattolica trovò il consenso della maggior parte della popolazione. Alla nascita del regno diverse guerre comportarono la sconfitta e la conseguente interdizione delle altre confessioni religiose a cui aderivano minoranze e coloni stranieri: Islam e chiesa ortodossa. In Calabria e in Puglia fino al concilio di Trento e alla controriforma sopravvisse l'uso del rito greco e del Credo Niceno (simbolo recitato senza filioque). La riconversione di molte delle diocesi greche alla tradizione latina inizialmente fu affidata ai benedettini e ai cistercensi che si sostituirono gradatamente con le loro missioni ai monasteri basiliani, poi fu incoraggiata e ufficializzata da una serie di disposizioni che seguirono il concilio di Trento.
Un'altra importante minoranza religiosa era costituita dalle comunità ebraiche: diffuse nei principali porti della Calabria, della Puglia, e in alcune città della Terra di Lavoro e della costa campana, furono espulse dal regno nel 1542 e riammesse poi, con tutti i diritti di cittadinanza, solo sotto il governo di Carlo III di Spagna, circa due secoli più tardi.
Il controllo dottrinale cattolico fu esercitato prevalentemente nelle gerarchie nobiliari e nella giurisprudenza e determinò d'altra parte lo sviluppo di filosofie e etiche eversive nei riguardi della Chiesa di Roma, laiche e spesso anticurialiste: queste dottrine nacquero su basi atomistiche e gassendiane ed ebbero diffusione dal XVII secolo (filosofie portate a Napoli da Tommaso Cornelio)[58] e confluirono poi in una forma fortemente locale di giansenismo nel XVIII secolo[60]
Particolarmente diffuso fra la popolazione di tutto il regno era il culto dei santi e dei martiri, invocati spesso come protettori, taumaturghi e guaritori, nonché la devozione alla Vergine Maria (Concezione, Annunciazione, del Pozzo, Assunzione). D'altra parte nei territori del regno sono sorti centri di vocazione, di ecumenismo, e ordini monastici nuovi quali i teatini, i redentoristi e i celestini.
Lingue e cultura
Nel regno di Napoli rimase ben poco della fioritura culturale che Federico II incentivò a Palermo, dando, con l'esperienza della lingua siciliana, dignità letteraria ai dialetti siciliani e calabresi. Con l'avvento del regno angioino tutte le minoranze linguistiche del Mezzogiorno furono emarginate da politiche centraliste e l'uso del latino si sostituì ovunque al greco (il quale però sopravvisse nelle liturgie delle principali diocesi calabre fino al XVI secolo). La familiarità di parte del clero meridionale con la tradizione bizantina e le ambizioni degli aristocratici di dare fondamento storico e culturale alla propria condizione sociale favorirono poi lo sviluppo in tutto il regno degli studi umanistici, sia nel diritto e nella retorica latina, sia nei classici greci: la letteratura ellenica fu importata a Napoli dopo la dissoluzione dell'impero bizantino dai rifugiati orientali che abbandonavano i Balcani caduti sotto il dominio ottomano. Nel XV secolo però, benché già con Alfonso I fossero venuti in città molti catalani, fu adottato da artisti e letterati locali (a partire dal Sannazaro) il fiorentino come lingua colta neolatina, rimanendo quindi da allora di fatto la lingua delle grandi personalità fra le quali il Marino, il Vico e il Giannone. Con il vicereame spagnolo il castigliano fu anche lingua di corte e dei funzionari statali, lingua che ha lasciato le sue tracce nel volgare di Napoli. La popolazione nella capitale e nel regno conservò sempre il volgare locale, dei dialetti meridionali, che raggiunse dignità letteraria prima con Lo cunto de li cunti del Basile, e quindi con l'uso della lingua napoletana nella poesia (Cortese), nella musica e nella lirica. Diversi istituti di cultura erano diffusi in tutto il regno, e consistevano prevalentemente in scuole di grammatica, retorica, teologia scolastica, aristotelismo o medicina galenica. L'università e le scuole musicali della capitale competevano in prestigio e avanguardia con quelle delle principali capitali europee
 Rocco Michele Renna
https://it.wikipedia.org/wiki/Regno_di_Napoli

Commenti

Post più popolari