Regno di Napoli o Regno di Puglia?
sud italico 1300 regno di sicilia e di puglia |
facciamo luce sulla nascita e fine del regno di Napoli e non sulla napolitania, nome inventato da alcuni cosiddetti indipendentisti
Regno di Napoli o Regno di Sicilia citeriore o Regno di Puglia
Regno di Napoli o Regno di Sicilia citeriore o Regno di Puglia
bandiera angioina |
Nome ufficiale “Regnum Siciliae citra Pharum”
Lingue ufficiali Latino, italiano,Napoletano, spagnolo, catalano, francese.
Lingue parlate Vernacoli meridionali e meridionali estremi,
con minoranze di lingua occitana, greca, francoprovenzale, croato-molisana e
arbëreshë.
Capitale Napoli
Altre capitali Caserta
Nascita 1302.
Causa :Nomina a Rex Siciliae citra Pharum di Carlo II d'Angiò con la pace di Caltabellotta,
Fine 1816,
Causa:Unione sotto la corona dei Borbone del Regno di Napoli e del Regno di Sicilia dopo il congresso di Vienna
Causa :Nomina a Rex Siciliae citra Pharum di Carlo II d'Angiò con la pace di Caltabellotta,
Fine 1816,
Causa:Unione sotto la corona dei Borbone del Regno di Napoli e del Regno di Sicilia dopo il congresso di Vienna
Territorio e
popolazione
Bacino geografico Abruzzo (incluse Leonessa, Amatrice,
Cittaducale e il Cicolano), Molise, Campania (incluse Sora e Gaeta), Puglia,
Basilicata, Calabria
Territorio originale Italia meridionale
Massima estensione Unione
personale o dinastica, sotto vari sovrani angioini, con i regni di Ungheria, di
Gerusalemme, di Albania, con il Principato d'Acaia e le contee di Provenza e di
Forcalquier; con Alfonso I Napoli divenne la capitale de facto della Corona
d'Aragona nel
Popolazione 5.700.000
nel 1832
Suddivisione 12-14
province
Economia
Valuta Tarì, Tornese,
Grano, Carlino, Ducato, Piastra o Pezza, Cavallo
Commerci con Stati
italiani ed europei del Mediterraneo, Inghilterra
Esportazioni Grano,
olio d'oliva, vino, seta, lana, carta, merletti, ceramiche artistiche,
zafferano, lame.
Importazioni Metalli
preziosi, spezie.
Religione e società
Religione di Stato Religione
cattolica
Religioni minoritarie Ebrei,
Ortodossi, Valdesi
Regno di Napoli è il nome convenzionale con cui è conosciuto
nella storiografia moderna l'antico stato italiano esistito dal XIII al XIX
secolo, il cui nome ufficiale era Regno di Sicilia citeriore.
Utilizzato dagli storici fu anche il nome
Regno di Puglia, che trova la sua origine in età normanna, allorquando il
territorio era parte integrante del Regno normanno di Sicilia. Quest'ultimo
Stato fu istituito nel 1130, con il conferimento a Ruggero II d'Altavilla del
titolo di Rex Siciliae dall'antipapa Anacleto II, titolo confermato nel 1139 da
papa Innocenzo II. Il nuovo stato insisteva così su tutti i territori del
Mezzogiorno e della Sicilia, attestandosi come il più ampio degli antichi stati
italiani.
A seguito della rovina della famiglia imperiale degli
Hohenstaufen, che era succeduta agli Altavilla, papa Urbano IV nominò nel 1263
Carlo I d'Angiò nuovo Rex Siciliae. Ma il pesante fiscalismo angioino e il
malcontento diffuso a tutti gli strati della popolazione isolana determinarono
la rivolta del Vespro; seguì la guerra dei novant'anni tra Pietro III
d'Aragona, imparentato con gli Hohenstaufen, e gli Angiò. Sconfitto, il 26
settembre 1282 Carlo d'Angiò lasciò definitivamente la Sicilia nelle mani degli
Aragonesi. Alla stipula della Pace di Caltabellotta (1302) seguì la formale
divisione del regno in due: Regnum Siciliae citra Pharum (noto nella
storiografia moderna come Regno di Napoli) e Regnum Siciliae ultra Pharum
(anche noto per un breve periodo come Regno di Trinacria, noto nella
storiografia moderna come Regno di Sicilia). Pertanto questo trattato può
essere considerato l'atto di fondazione convenzionale dell'entità politica nota
come Regno di Napoli.
Il regno, ormai stato sovrano, vide una grande fioritura
intellettuale, economica e civile sia sotto le varie dinastie angioine
(1282-1445), sia con la riconquista aragonese di Alfonso I (1442-1458), sia
sotto il governo di un ramo cadetto della casa d'Aragona (1458-1501); allora la
capitale era celebre per lo splendore della sua corte e il mecenatismo dei
sovrani. Nel 1504, la Spagna unita sconfisse la Francia e annesse
definitivamente il regno di Napoli, riunendolo finalmente al regno isolano;
essi furono governati come due vicereami distinti ma con la dicitura ultra et
citra Pharum, con la conseguente distinzione storiografica e territoriale tra
Regno di Napoli e Regno di Sicilia. Benché i due regni, nuovamente riuniti, ottennero
l'indipendenza con Carlo III già nel 1734, l'unificazione giuridica definitiva
di entrambi i regni si ebbe solo nel 1816, con la fondazione dello stato
sovrano del Regno delle Due Sicilie.
Il territorio del Regno di Napoli corrispondeva alla somma
di quelli delle attuali regioni d'Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata
e Calabria e comprendeva anche alcune aree dell'odierno Lazio meridionale ed
orientale.
Dal Regno di Sicilia
al Regno di Napoli
L'isola di Sicilia e l'intera Italia meridionale a sud del
Tronto e del Liri erano i territori che formavano il Regno di Sicilia,
costituito di fatto nel 1127-1128 quando il conte di Sicilia Ruggero II
d'Altavilla unificò sotto il suo dominio i diversi feudi normanni dell'Italia
Meridionale (Ducato di Puglia e Calabria). Il titolo di Re di Sicilia fu
istituito dall'Antipapa Anacleto II fin dal 1130 e successivamente legittimato,
nel 1139, da Papa Innocenzo II. Alla fine del XII secolo, a seguito della
sconfitta di Federico Barbarossa, lo Stato Pontificio aveva avviato con
Innocenzo III una politica di espansionismo del potere temporale; papa
Innocenzo IV, in linea col suo predecessore, rivendicò i diritti feudali dello
Stato della Chiesa sul Regno di Sicilia, poiché i titoli regali sullo Stato erano
stati assegnati ai normanni (Ruggero II) da papa Innocenzo II. Quando però
Enrico VI, figlio del Barbarossa, sposò Costanza d'Altavilla, ultima erede del
Regno di Sicilia, il territorio normanno passò sotto la corona sveva,
diventando un centro strategico della politica imperiale degli Hohenstaufen in
Italia, in particolare con Federico II.
Il sovrano Svevo, nella duplice posizione di Imperatore del
Sacro Romano Impero Germanico e re di Sicilia, fu uno dei protagonisti della
storia medievale europea: si preoccupò principalmente del Regno di Sicilia,
delegando ai principi germanici parte dei suoi poteri nei territori d'oltralpe.
Principale ambizione del sovrano fu quella di creare uno Stato coeso ed
efficiente: nobiltà feudale e città dovevano rispondere unicamente al re, in
uno Stato fortemente centralizzato retto da un capillare apparato burocratico e
amministrativo, che trovò nelle Costituzioni di Melfi la sua massima
espressione.
domini aragonesi nel 1443 |
Durante il regno di Federico II, le nuove vie commerciali in
direzione della Toscana, della Provenza e in definitiva dell'Europa,
risultavano sempre più vantaggiose e proficue rispetto a quelle del
Mediterraneo meridionale, dove spesso i traffici erano ostacolati
dall'ingerenza dei Saraceni e l'incostanza di diversi Regni Islamici.
Federico II fondò a Napoli lo Studium, ovvero la più antica università statale
d'Europa, destinata a formare le menti della classe dirigente del Regno.
Alla morte di Federico (1250), il figlio Manfredi assunse la
reggenza del Regno. Un diffuso scontento e la resistenza dei ceti baronale e
cittadino al nuovo sovrano sfociò infine in una violenta sollevazione contro le
imposizioni provenienti dalla corte regia. In questo i rivoltosi trovarono il
sostegno di papa Innocenzo IV, desideroso di estendere la sua autorità nel
Mezzogiorno. Tanto i feudatari quanto la classe, tipicamente urbana, composta
da burocrati, notai e funzionari, desideravano più indipendenza e maggiore
respiro dal centralismo monarchico; pertanto Manfredi tentò una mediazione. Il
nuovo sovrano affrontò i conflitti con una decisa politica di decentramento
amministrativo che tendeva ad integrare nella gestione del territorio, oltre
che i ceti baronali, anche le città.
Pur senza cedere alle richieste d'autonomia provenienti dall'ambiente
urbano, il nuovo sovrano valorizzò molto più del padre la funzione delle città
come poli amministrativi, favorendo anche l'inurbamento dei baroni; ciò fece
emergere, accanto alla più antica nobiltà baronale, un nuovo ceto burocratico
urbano, che in vista di una promozione sociale, investì parte dei guadagni
nell'acquisto di estesi patrimoni terrieri. Tali mutamenti della composizione
del ceto dirigente urbano indussero anche nuove relazioni tra le città e la
corona, preannunciando le profonde trasformazioni della successiva età
angioina.
campagna di Carlo I e la nascita del regno di albania |
Manfredi continuò inoltre a legittimare le politiche
ghibelline, controllando direttamente l'«Apostolica Legazia di Sicilia», corpo
politico-giuridico in cui l'amministrazione delle diocesi e del patrimonio
ecclesiastico era direttamente gestita dal sovrano, ereditaria e senza la
mediazione papale. In questi anni papa Innocenzo IV sostenne una serie di
rivolte in Campania e Puglia che portarono all'intervento diretto
dell'imperatore Corrado IV, fratello maggiore di Manfredi, il quale infine
riportò il Regno sotto la giurisdizione imperiale. Succedette a Corrado IV il
figlio Corradino di Svevia e, finché quest'ultimo fu ancora minorenne, il
governo della Sicilia e della Apostolica Legazia fu presa da Manfredi: egli,
più volte scomunicato per contrasti con il papato, arrivò a proclamarsi re di
Sicilia.
Morto Innocenzo IV, il nuovo papa di origine francese Urbano
IV, rivendicando diritti feudali sull'isola e temendo una possibile futura,
diretta annessione del Regno di Sicilia al Sacro Romano Impero Germanico,
chiamò in Italia Carlo d'Angiò, conte di Angiò, Maine e Provenza, e fratello
del re di Francia, Luigi IX: nel 1266 il vescovo di Roma lo nominò rex
Siciliae. Il nuovo sovrano dalla Francia partì allora alla conquista del regno,
sconfiggendo prima Manfredi nella battaglia di Benevento, e poi Corradino di
Svevia a Tagliacozzo, il 23 agosto 1268.
Gli Hohenstaufen, la cui linea maschile si era estinta con
Corradino, furono eliminati dalla scena politica italiana mentre gli angioini
si assicurarono il dominio sul Regno di Sicilia. La calata di Corradino,
tuttavia, fu la premessa di importanti sviluppi, perché le città siciliane, che
avevano accolto benevolmente Carlo d'Angiò dopo la battaglia di Benevento,
erano nuovamente passate a sostenere la parte ghibellina. La svolta
anti-angioina sull'isola, motivata dall'eccessiva pressione fiscale del nuovo
governo francese, non ebbe conseguenze politiche immediate, ma fu il primo
passo verso la successiva guerra del vespro.
La grande speculazione finanziaria che la guerra aveva
comportato (gli angioini si erano indebitati con i banchieri guelfi di
Firenze), portò a una serie di nuove tassazioni e gabelle in tutto il regno,
che si sommarono a quelle che il re impose quando ebbe a finanziare una serie
di campagne militari in oriente, nella speranza di assoggettare al suo dominio
i resti dell'antico impero bizantino.
Gli Angioini
L'avvento di Carlo I sul trono, divenuto Re grazie
all'investitura Papale e per diritto di conquista, non segnò tuttavia una vera
e propria rottura con la dominazione Sveva, ma si realizzò in un quadro di
sostanziale stabilità delle istituzioni monarchiche ed in particolare
dell'impianto fiscale. Il rafforzamento dell'apparato di governo attuato in
precedenza da Federico II offriva infatti alla dinastia Angioina una struttura
Statale solida su cui poggiare il proprio potere. Il primo re Angioino conservò
senza discontinuità le magistrature elettive dell'apparato regio e
nell'amministrazione centrale associò strutture del Regno svevo con le
istituzioni della monarchia francese.
L'eredità dell'organizzazione dello Stato federiciano,
riutilizzata da Carlo I, però riproponeva nuovamente il problema
dell'opposizione congiunta delle città e della nobiltà feudale: le stesse forze
che durante il regno di Manfredi avevano appoggiato la dinastia francese contro
gli Svevi. Il sovrano angioino, nonostante i solleciti del Papa, governò con
forte assolutismo, incurante delle pretese della nobiltà e del ceto urbano, che
non consultò mai se non per l'aumento delle tassazioni dovuto alla guerra
contro Corradino.
Con la morte di Corradino, per mano degli Angioini, i diritti
svevi sul trono di Sicilia passarono ad una delle figlie di Manfredi: Costanza
di Hohenstaufen, che il 15 luglio 1262 aveva sposato il re d'Aragona Pietro
III. Il partito ghibellino di Sicilia che precedentemente si era organizzato
attorno agli svevi Hohenstaufen, fortemente scontento della sovranità francese
sull'isola, cercò il sostegno di Costanza e degli aragonesi, per organizzare la
rivolta contro gli angioini.
Iniziò così la rivolta del Vespro. Questa è stata a lungo
considerata l'espressione di una ribellione popolare spontanea contro il peso
della fiscalità ed il governo tirannico «della mala Signoria Angioina», come la
definì Dante Alighieri; ma questa interpretazione ha lasciato ormai spazio ad
una valutazione più attenta alla complessità degli avvenimenti e alla molteplicità
degli attori in campo.
Un ruolo centrale deve essere indubbiamente attribuito
all'iniziativa dell'aristocrazia rafforzatasi in età Sveva, più decisamente
radicata in Sicilia, che sentiva minacciate le proprie posizioni di potere
dalle scelte del nuovo sovrano: la preferenza accordata dagli Angiò a Napoli,
il loro strettissimo legame con il Papa ed i mercanti Fiorentini, la tendenza
ad affidare importanti funzioni di governo ad uomini provenienti dal
Mezzogiorno peninsulare.
Fra questi oppositori si distinguevano per attivismo le
famiglie aristocratiche emigrate che, dopo l'esecuzione del giovane Corradino,
avevano dovuto rinunciare a diritti e a beni patrimoniali, ma che godevano del
sostegno delle città Ghibelline dell'Italia centro-settentrionale. Inoltre con
la perdita di centralità della Sicilia, anche le forze produttive e
commerciali, che avevano in principio sostenuto la spedizione Angioina, si
trovarono in netta contrapposizione con la crescente egemonia del Mezzogiorno
peninsulare.
Inoltre non è da sottovalutare l'interferenza di agenti
esterni come la monarchia Aragonese, in quel periodo in grande contrapposizione
con il blocco franco-angioino, le città Ghibelline, ed addirittura l'impero
Bizantino, fortemente preoccupato dai progetti espansionistici di Carlo che gli
aveva già strappato Corfù e Durazzo ormai parti del Regno di Sicilia.
Nascita del regno
La sollevazione popolare anti-angioina iniziò a Palermo il
31 marzo 1282 e dilagò in tutta la Sicilia, finché nell'agosto del 1282
l'esercito di Carlo d'Angiò non fu sconfitto durante l'Assedio di Messina che
duro' ben 5 mesi, da maggio a settembre 1282. Il Parlamento Siciliano
incorono'Pietro III di Aragona e la moglie Costanza, figlia di Manfredi: di
fatto da quel momento vi furono due sovrani con il titolo di re di Sicilia:
l'Aragonese, per investitura del Parlamento Siciliano, e l'Angioino, per
investitura papale.
Il 26 settembre 1282 Carlo d'Angiò scappò definitivamente
dal campo d'armi in Calabria. Qualche mese più tardi, il papa regnante Martino
IV scomunicò Pietro III. Ciononostante non fu più possibile per Carlo tornare
nell'arcipelago siciliano e la sede regia angioina fu itinerante tra Capua e la
Puglia per diversi anni, finché con il successore di Carlo I, Carlo II d'Angiò,
Napoli fu definitivamente scelta come nuova sede della monarchia e delle
istituzioni centrali nel continente[19]. Si concludeva così quel processo che
fin dai tempi di Federico II, aveva spinto i sovrani a privilegiare la città
del Vesuvio e con Carlo II,la dinastia ebbe la sua sede fissa nel Maschio
Angioino .
Seppur le ambizioni angioine in Sicilia furono inibite dalle
numerose sconfitte, Carlo I mirò a consolidare il proprio potere nella parte
continentale del regno, innestando sulla precedente politica baronale guelfa
parte delle riforme che già il vecchio Stato Svevo stava attuando per
rafforzare l'unità territoriale del Mezzogiorno. Dalle prime invasioni
longobarde buona parte dell'economia del regno, nel principato di Capua, in
Abruzzo, e nel Contado di Molise, era gestita dai monasteri benedettini
(Casauria, San Vincenzo al Volturno, Montevergine, Montecassino), che in molti
casi avevano accresciuto i loro privilegi fino a diventare vere e proprie signorie
locali, a sovranità territoriale e in contrasto spesso con i feudatari laici
vicini. L'invasione normanna prima, le lotte fra l'antipapa Anacleto II,
sostenuto fra gli altri dai benedettini, e il papa Innocenzo II, e infine la
nascita del regno di Sicilia, minarono le basi della tradizione feudale
benedettina. Dopo il 1138, sconfitto Anacleto II, Innocenzo II e le dinastie
normanne incentivarono nell'Italia meridionale il monachesimo cistercense;
molti monasteri benedettini furono convertiti alla nuova regola che, limitando
l'accumulazione di beni materiali alle risorse necessarie per la produzione
artigianale e agricola, precludeva la possibilità per i nuovi cenobi di
costituire patrimoni e signorie feudali: il nuovo ordine investiva quindi le
risorse in riforme agrarie (bonifiche, dissodamenti, grangìe), artigianato,
meccanica e assistenza sociale, con valetudinaria (ospedali), farmacie e chiese
rurali.
Il monachesimo francese trovò allora il sostegno dei vecchi
feudatari normanni che poterono così contrastare attivamente le ambizioni
temporali del clero locale: su questo compromesso si innestò la politica del
nuovo sovrano Carlo I; egli fondò di sua mano le abbazie cistercensi di
Realvalle (Vallis Regalis) a Scafati e Santa Maria della Vittoria a Scurcola
Marsicana, e favorì le filiazioni delle storiche abbazie di Sambucina
(Calabria), Sagittario (Basilicata), Sterpeto (Terra di Bari), Ferraria
(principato di Capua), Arabona (Abruzzo) e Casamari (Stato Pontificio), diffondendo
al contempo il culto dell'Assunzione di Maria nel Mezzogiorno. Concesse inoltre
nuove contee e ducati ai militari francesi che sostennero la sua conquista del
napoletano.
I principali centri monastici di produzione economica erano
stati così svincolati dall'amministrazione di possedimenti feudali e l'unità
dello Stato, debellata l'autorità politica benedettina, si fondava ora sulle
antiche baronie normanne e sull'assetto militare risalente a Federico II. Carlo
I infatti conservò gli antichi giustizierati federiciani, accrescendo il potere
dei rispettivi presidenti: ogni provincia aveva un giustiziere che, oltre ad
essere a capo di un importante tribunale, con due corti, era anche il vertice
della gestione del locale patrimonio finanziario e dell'amministrazione del
tesoro, ricavato dalle tassazioni delle universitates (comuni). L'Abruzzo fu
diviso in Aprutium citra (flumen Piscariae) e Aprutium ultra (flumen
Piscariae); molte delle città sveve, come Sulmona, Manfredonia e Melfi, persero
il loro ruolo centrale nel regno in favore di città minori o antichi capoluoghi
decaduti come Sansevero, Chieti e L'Aquila, mentre nei territori che erano
stati bizantini (Calabria, Puglia) si consolidò l'assetto politico iniziato
dalla conquista normanna: l'amministrazione periferica, che i greci affidavano
ad un capillare sistema di città e diocesi, tra il patrimonium publicum dei
funzionari bizantini e il p. ecclesiae dei vescovi, da Cassanum a Gerace, da
Barolum a Brundisium, fu sostituita definitivamente dall'ordine feudale della
nobiltà fondiaria. Nel Mezzogiorno le sedi dei giustizieri (Salerno, Cosenza,
Catanzaro, Reggio, Taranto, Bari, Sansevero, Chieti, L'Aquila e Capua) o di
importanti arcidiocesi (Benevento e Acheruntia), oltre che la nuova capitale,
restarono gli unici centri abitati dotati di peso politico o attività
finanziarie, economiche e culturali. Carlo perse però, per dei provvedimenti
pontifici, le ultime regalie del napoletano, quali il diritto del sovrano di
nominare degli amministratori regi nelle diocesi con sedi vacanti: tali
privilegi fino ad allora nel Mezzogiorno erano sopravvissuti alla riforma
gregoriana che stabiliva che solo il pontefice doveva godere della facoltà di
nominare e deporre vescovi (libertas Ecclesiae).
Il 7 gennaio 1285 morì Carlo I d'Angiò e gli succedette
Carlo II. Con l'ascesa al trono di Napoli di questo sovrano, la politica regia
ebbe una svolta: da quel momento, in seguito alla quasi costante belligeranza
tra i regni di Sicilia (Napoli) e di Trinacria (Sicilia), la politica della
dinastia Angioina si interessò soprattutto di ottenere un buon consenso
all'interno del Regno. Infatti furono da un lato aumentati i privilegi alla
nobiltà feudale, indispensabile alla causa bellica, ma dall'altro, quasi a
voler bilanciare l'implementarsi dei potentati feudali, furono accordate dai
sovrani alle città, in gradi diversi a seconda dell'importanza che esse
ricoprivano, nuove libertà ed autonomie. Queste ora potevano eleggere i
giurati, ovvero i giudici con funzioni amministrative e di controllo ed i
sindaci, rappresentanti della popolazione presso il sovrano. Si venne così a
creare a Napoli ed in altre realtà urbane del Mezzogiorno una crescente
conflittualità tra nobiltà cittadina ed il popolo grasso, al quale
successivamente il Re Roberto concesse la possibilità di entrare direttamente
nell'amministrazione dello Stato. Per certi versi si venne a creare, almeno
nelle principali città del Regno una situazione rassomigliante al contrasto
esistente anche nei comuni e nelle signorie dell' Italia centro-settentrionale,
ma la pace del Re, fungeva da equilibratrice e la figura del sovrano da
arbitro, poiché l'autorità del Re era comunque indiscutibile. Si configurò così
un gioco di equilibrio tra città e realtà rurali-feudali abilmente gestito
dalla monarchia, che sotto l'egida di Roberto d'Angiò giunse a regolamentare e
delineare nettamente le sfere di influenza di nobiltà feudale, città e demanio
regio.
In Sicilia invece, alla morte di Pietro III, re d'Aragona e
Sicilia, il dominio sull'isola fu conteso dai suoi due figli Alfonso III e
Giacomo I di Sicilia. Quest'ultimo firmò il Trattato di Anagni del 12 giugno
1295, cedendo i diritti feudali sulla Sicilia a papa Bonifacio VIII: il
pontefice in cambio concesse a Giacomo I la Corsica e la Sardegna, conferendo
quindi la sovranità della Sicilia a Carlo II di Napoli, erede del titolo di rex
Siciliae da parte angioina. Il trattato d'Anagni però non portò a una pace
duratura; quando Giacomo I lasciò la Sicilia per governare l'Aragona, il trono
palermitano fu affidato al fratello Federico III che guidò l'ennesima
ribellione per l'indipendenza dell'isola e fu poi incoronato da Bonifacio VIII
re di Trinacria (rex Trinacriae). Federico III però perse l'appoggio di alcuni
baroni siciliani; per conservare il titolo regale, per la prima volta
riconosciuto dalla Santa Sede, firmò con Carlo di Valois, chiamato da Martino
IV a ripristinare l'ordine in Sicilia, la pace di Caltabellotta nel 1302:
furono allora formalmente distinti dall'antico Regno di Sicilia normanno-svevo,
il Regno di Trinacria, sotto il controllo degli Aragonesi con capitale Palermo,
e il regno di Sicilia con capitale Napoli sotto il controllo degli angioini.
Carlo II a questo punto rinunziò alla riconquista di Palermo e iniziò una serie
di interventi legislativi e territoriali per adattare Napoli al ruolo di nuova
capitale dello Stato: ampliò le mura cittadine, ridusse la pressione fiscale e
vi insediò la Gran Corte della Vicaria.
Nel 1309 il figlio di Carlo II, Roberto d'Angiò, venne
incoronato da Clemente V re di Napoli, ancora però con il titolo di rex
Siciliae, oltre che di rex Hierosolymae.
Con questo sovrano la dinastia Angioino-napoletana raggiunse
il suo apogeo. Roberto d'Angiò, detto "il Saggio" e
"pacificatore d'Italia", rafforzò l'egemonia del Regno di Napoli,
ponendo egli stesso e il suo reame a capo della lega Guelfa, opponendosi alle
pretese Imperiali di Arrigo VII e Ludovico il Bavaro sul resto della penisola,
riuscendo finanche grazie alla sua astuta e prudente politica a divenire
Signore di Genova.
Roberto tentò la riconquista della Sicilia in seguito
all'attacco congiunto delle forze imperiali ed aragonesi al Regno di Napoli ed
alla lega Guelfa. Sebbene le sue truppe giunsero ad occupare e saccheggiare
Palermo, Trapani e Messina, l'atto fu più punitivo che di concreta conquista,
infatti il sovrano Angioino non fu in grado di proseguire in una lunga guerra
di logoramento e fu costretto a rinunciare.
Sotto la sua guida le attività commerciali si
intensificarono, fiorirono le logge e le corporazioni, Napoli divenne la città
più vivace del Basso Medioevo in Italia, grazie all'effetto dell'attività
mercantile intorno al nuovo porto che divenne forse il più movimentato della
penisola che attirava il localizzarsi di piccole e grandi imprese commerciali,
operanti nel campo dei tessuti e dei drappi, delle oreficerie e delle spezie. Ciò
fu anche dovuto alla presenza di banchieri, cambiavalute ed assicuratori,
Fiorentini, Genovesi, Pisani e Veneziani, disposti ad assumersi rischi di non
limitata entità pur di assicurarsi rapidi e cospicui profitti a movimentare
l'economia di una capitale sempre più cosmopolita.
Inoltre il sovrano, nella sua costante funzione di arbitro
tra nobiltà e popolo grasso, ridusse il numero di seggi nobiliari per limitarne
l'influenza a vantaggio dei populares.
Roberto il Saggio
In questi anni la città di Napoli rafforzò il suo peso
politico nella penisola, anche con lo sviluppo della propria vocazione
umanistica. Roberto d'Angiò era molto stimato dagli intellettuali italiani suoi
contemporanei come il Villani, il Petrarca, Boccaccio e Simone Martini. Proprio
il Petrarca volle da lui essere interrogato per poter conseguire il lauro e lo
definì "Il Re più saggio dopo Salomone". Al contrario non godette mai
delle simpatie del filo-imperiale Dante Alighieri che lo definì "Re da
sermone".
Il sovrano raccolse a Napoli in una scuola, non preclusa
alle influenze dell'averroismo, un importante gruppo di teologi scolastici.
Egli affidò a Nicola Deoprepio di Reggio Calabria la traduzione delle opere di
Aristotele e Galeno per la biblioteca di Napoli.[35] Dalla Calabria inoltre
vennero nella nuova capitale Leonzio Pilato e il basiliano Barlaamo di
Seminara, celebre teologo che affrontò in quegli anni in Italia le dispute
dottrinali sorte attorno al filioque e al credo niceno[36]: il monaco fu anche
a contatto con Petrarca, di cui fu maestro di greco, e Boccaccio che lo conobbe
proprio a Napoli.
Importante anche dal punto di vista artistico fu l'apertura
di una scuola giottesca e la presenza di Giotto in città per affrescare la
Cappella Palatina nel Maschio Angioino e numerosi palazzi nobiliari, inoltre
sotto Roberto d'Angiò si diffuse lo stile gotico in tutto il Regno, a Napoli il
Re edificò la Basilica di Santa Chiara, sacrario della dinastia Angioina. Il
Regno di Napoli si distinse in quel periodo per una cultura del tutto originale
che accostava ad elementi tipicamente Italici e Mediterranei anche peculiarità
delle corti dell'Europa centrale, trovando una sintesi tra il culto dei valori
cavallereschi, la poesia Provenzale e le correnti artistiche, poetiche e i costumi
tipicamente Italici.
Il re Roberto designò come suo erede il figlio Carlo di
Calabria ma dopo la morte di quest'ultimo, il sovrano fu costretto a lasciare
il trono alla sua giovane nipote, Giovanna d'Angiò figlia di Carlo.
Nel 1372, Giovanna I d'Angiò, e Federico IV di Sicilia
sottoscrissero un trattato di pace che sanciva il riconoscimento reciproco
delle monarchie e dei rispettivi territori: Napoli agli Angioini e la Sicilia
agli Aragonesi, estendendo il riconoscimento dei titoli regi anche alle rispettive
linee di successione.
L'erede di Roberto, Giovanna I di Napoli, aveva sposato
Andrea d'Ungheria, duca di Calabria e fratello del re d'Ungheria Luigi I,
discendenti entrambi dagli angioini partenopei (Carlo II). A seguito di una
misteriosa congiura Andrea fu ucciso. Per vendicarne la morte, il 3 novembre
1347 il re d'Ungheria scese in Italia con l'intenzione di spodestare Giovanna I
di Napoli. Benché il sovrano ungherese più volte avesse preteso dalla Santa
Sede la deposizione di Giovanna I, il governo pontificio, risiedente allora ad
Avignone e politicamente legato alla dinastia francese, confermò sempre il
titolo di Giovanna nonostante le spedizioni militari che il re d'Ungheria
intraprese in Italia. La regina di Napoli, da parte sua, priva di una
discendenza uterina, adottò come figlio ed erede al trono Carlo di Durazzo
(nipote di Luigi I d'Ungheria), finché anche Napoli non fu direttamente
coinvolta negli scontri politici e dinastici che seguirono lo Scisma
d'Occidente: a corte e in città si contrapposero direttamente un partito
filofrancese e un partito locale, il primo schierato a favore dell'antipapa
Clemente VII e capeggiato dalla regina Giovanna I, il secondo a favore del papa
napoletano Urbano VI che trovò il sostegno di Carlo di Durazzo e
dell'aristocrazia Napoletana. Giovanna privò allora Carlo di Durazzo dei
diritti di successione in favore di Luigi I d'Angiò, fratello del re di
Francia, incoronato re di Napoli (rex Siciliae) da Clemente VII nel 1381. Egli,
alla morte di Giovanna I (uccisa per ordine dello stesso Carlo di Durazzo nel
Castello di Muro Lucano nel 1382), scese però inutilmente in Italia contro
Carlo di Durazzo, e qui morì nel 1384. Carlo restò unico sovrano, e lasciò
Napoli ai figli Ladislao e Giovanna per recarsi quindi in Ungheria a
rivendicarne il trono: nel regno transalpino venne assassinato in una congiura.
Prima che i due eredi Ladislao e Giovanna raggiungessero la
maturità, la città campana cadde in mano al figlio di Luigi I d'Angiò, Luigi
II, incoronato re da Clemente VII il 1º novembre 1389. La nobiltà locale
osteggiò il nuovo sovrano e nel 1399 Ladislao I poté rivendicare militarmente i
suoi diritti al trono sconfiggendo il re francese. Il nuovo re seppe restaurare
l'egemonia napoletana nell'Italia meridionale intervenendo direttamente nei
conflitti di tutta la penisola: nel 1408, chiamato da papa Innocenzo VII per
sedare le rivolte ghibelline nella capitale pontificia, occupava buona parte
del Lazio e dell'Umbria ottenendo l'amministrazione della provincia di Campagna
e Marittima, e occupando poi Roma e Perugia sotto il pontificato di Gregorio
XII. Nel 1414, dopo aver sconfitto definitivamente Luigi II d'Angiò, ultimo
sovrano a capo di una lega organizzata dall'antipapa Alessandro V e volta ad
arginare l'espansionismo partenopeo, il re di Napoli giungeva alle porte di
Firenze. Con la sua morte tuttavia non vi furono successori a continuare le sue
imprese e i confini del regno tornarono entro il perimetro storico; la sorella
di Ladislao però, Giovanna II di Napoli, alla fine dello scisma d'Occidente,
ottenne il riconoscimento definitivo dalla Santa Sede del titolo regale per la
sua famiglia.
Succeduta a Ladislao nel 1414 la sorella Giovanna, il 10
agosto 1415 sposò Giacomo II di Borbone: dopo che il marito tentò di acquisire
personalmente il titolo regale, una rivolta nel 1418 lo costrinse a tornare in
Francia dove si ritirò in un monastero francescano. Giovanna nel 1419 era la
sola regina, ma le mire espansionistiche nel napoletano degli angioini di
Francia non cessarono. Papa Martino V chiamò in Italia Luigi III d'Angiò contro
Giovanna che non voleva riconoscere i diritti fiscali dello Stato Pontificio
sul regno di Napoli. La minaccia francese perciò avvicinò il regno di Napoli
alla corte aragonese, tanto che la regina adottò Alfonso V d'Aragona come suo
figlio ed erede finché Napoli fu sotto l'assedio dalle truppe di Luigi III.
Allorché gli aragonesi liberarono la città nel 1423, occupando il regno e
scongiurando la minaccia francese, i rapporti con la corte locale non furono
facili, tanto che Giovanna, cacciato Alfonso V, alla sua morte lasciò il regno
in eredità a Renato d'Angiò, fratello di Luigi III.
Con la morte senza eredi di Giovanna II d'Angiò-Durazzo il
territorio del regno di Napoli fu conteso da Renato d'Angiò, che ne rivendicava
la sovranità in quanto fratello di Luigi d'Angiò, figlio adottivo della regina
di Napoli Giovanna II, e Alfonso V re di Trinacria, Sardegna e Aragona,
precedente figlio adottivo poi ripudiato della stessa regina. La guerra che ne
scaturì coinvolse gli interessi degli altri stati della penisola, fra cui la
signoria di Milano di Filippo Maria Visconti, che intervenne dapprima in favore
degli angioini (battaglia di Ponza), poi definitivamente con gli Aragonesi. Nel
1441 Alfonso V conquistò Napoli e ne assunse la corona (Alfonso I di Napoli),
riunificando il territorio dell'antico Stato svevo-normanno sotto la sua
reggenza con il titolo di rex Utriusque Siciliae, insediando la capitale nella
città campana e imponendosi, non solo militarmente, nello scenario politico
italiano.
Nel 1447 poi, Filippo Maria Visconti designò Alfonso erede
al ducato di Milano, arricchendo formalmente il patrimonio della corona
aragonese. La nobiltà della città lombarda però, temendo l'annessione al regno
di Napoli, proclamò Milano libero comune e instaurando la repubblica
ambrosiana; le conseguenti rivendicazioni aragonesi e napoletane furono contrastate
dalla Francia, che nel 1450 diede il sostegno politico a Francesco Sforza per
impadronirsi militarmente di Milano e del ducato. L'espansionismo ottomano, che
minacciava i confini del regno di Napoli, impedì ai napoletani l'intervento
contro Milano, e papa Niccolò V dapprima riconobbe lo Sforza come duca di
Milano, poi riuscì a coinvolgere Alfonso d'Aragona nella lega italica,
un'alleanza volta a consolidare il nuovo assetto territoriale della penisola.
La corte di Napoli in quest'epoca fu una delle più raffinate
e aperte alle novità culturali del Rinascimento: erano ospiti di Alfonso
Lorenzo Valla, che proprio durante il soggiorno partenopeo denunciò il falso
storico della donazione di Costantino, l'umanista Antonio Beccadelli e il greco
Emanuele Crisolora. Ad Alfonso si deve anche la ricostruzione di Castel Nuovo.
L'assetto amministrativo del regno rimase grossomodo quello dell'età angioina:
furono ridimensionati però i poteri degli antichi giustizierati (Abruzzo Ultra
e Citra, Contado di Molise, Terra di Lavoro, Capitanata, Principato Ultra e
Citra, Basilicata, Terra di Bari, Terra d'Otranto, Calabria Ultra e Citra), che
conservarono funzioni prevalentemente politiche e militari. L'amministrazione
della giustizia fu invece devoluta nel 1443 alle corti baronali, nel tentativo
di ricondurre le antiche gerarchie feudali nell'apparato burocratico dello
Stato centrale.
È considerato un altro importante passo verso il
raggiungimento dell'unità territoriale nel regno di Napoli la politica del re,
volta ad incentivare pastorizia e transumanza: nel 1447 Alfonso I varò una
serie di leggi, fra cui l'imposizione ai pastori abruzzesi e molisani di
svernare entro i confini napoletani, nel Tavoliere, dove molti dei terreni
coltivati furono trasformati anche forzatamente in pascoli. Istituì inoltre,
con sede prima a Lucera e poi a Foggia, la Dogana della mena delle pecore in
Puglia e l'importantissima rete dei tratturi che dall'Abruzzo (che dal 1532
avrebbe avuto il suo distaccamento della Dogana, la Doganella d'Abruzzo)
conducevano alla Capitanata. Questi provvedimenti risollevarono l'economia
delle città interne fra L'Aquila e la Puglia: le risorse economiche legate alla
pastorizia transumante dell'appennino abruzzese un tempo si disperdevano nello
Stato Pontificio, dove fino ad allora avevano svernato le mandrie.
Con i provvedimenti aragonesi le attività legate alla
transumanza coinvolsero, prevalentemente entro i confini nazionali, le attività
artigianali locali, i mercati e i fori boari tra Lanciano, Castel di Sangro,
Campobasso, Isernia, Boiano, Agnone, Larino fino al Tavoliere, e l'apparato
burocratico sorto attorno alla dogana, predisposto alla manutenzione dei
tratturi e alla tutela giuridica dei pastori, divenne, sul modello del Concejo
de la Mesta iberico, la prima base popolare dello Stato centrale moderno nel
regno di Napoli. In misura minore lo stesso fenomeno si verificò fra Basilicata
e Terra d'Otranto e le città (Venosa, Ferrandina, Matera) legate alla
transumanza verso il Metaponto. Alla sua morte (1458) Alfonso divise nuovamente
le corone lasciando il Regno di Napoli al suo figlio illegittimo Ferdinando
(legittimato da papa Eugenio IV e nominato duca di Calabria), mentre tutti gli
altri titoli della corona d'Aragona, incluso il regno di Sicilia, andarono a
suo fratello
Re Alfonso lasciò quindi un regno perfettamente inserito
nelle politiche italiane. La successione del figlio Ferdinando I di Napoli,
detto Don Ferrante, fu sostenuta dallo stesso Francesco Sforza; i due nuovi
sovrani insieme intervennero nella repubblica di Firenze e sconfissero le
truppe del capitano di ventura Bartolomeo Colleoni che insidiavano i poteri
locali; nel 1478 le truppe napoletane intervennero nuovamente in Toscana per
arginare le conseguenze della congiura dei Pazzi, e poi in Val Padana nel 1484,
alleate con Firenze e Milano, per imporre a Venezia la pace di Bagnolo.
Castello del Malconsiglio di Miglionico, dove avvenne la
congiura dei baroni
Trionfo di re
Ferdinando
Il potere di Ferrante però, durante la sua reggenza, rischiò
seriamente di essere minacciato dalla nobiltà campana; nel 1485 tra la Basilicata
e Salerno, Francesco Coppola conte di Sarno e Antonello Sanseverino principe di
Salerno, con l'appoggio dello Stato Pontificio e della repubblica di Venezia,
furono a capo di una rivolta con ambizioni guelfe e rivendicazioni feudali
angioine contro il governo aragonese che, accentrando il potere a Napoli,
minacciava la nobiltà rurale. La rivolta è conosciuta come congiura dei baroni,
che venne organizzata nel castello del Malconsiglio di Miglionico e fu
debellata nel 1487 grazie all'intervento di Milano e Firenze. Per un breve
periodo la città dell'Aquila passò allo Stato Pontificio. Un'altra congiura
filoangioina parallela, tra Abruzzo e Terra di Lavoro, fu guidata da Giovanni
della Rovere nel ducato di Sora, terminata con l'intervento mediatore di papa
Alessandro VI.
Nonostante gli sconvolgimenti politici, Ferrante continuò
nella capitale Napoli il mecenatismo del padre Alfonso: nel 1458 sostenne la
fondazione dell'Accademia Pontaniana, ampliò le mura cittadine e costruì Porta
Capuana. Nel 1465 la città ospitò l'umanista greco Costantino Lascaris e il
giurista Antonio D'Alessandro, nonché nel resto del regno Francesco Filelfo,
Giovanni Bessarione. Alla corte dei figli di Ferdinando gli interessi
umanistici presero però un carattere molto più politico, decretando fra le
altre cose l'adozione definitiva del toscano come lingua letteraria anche a
Napoli: è della seconda metà del XV secolo l'antologia di rime nota come
Raccolta aragonese, che Lorenzo de' Medici inviò al re di Napoli Federico I, in
cui si proponeva alla corte partenopea il fiorentino come modello di volgare
illustre, di pari dignità letteraria con il latino. Gli intellettuali
napoletani accolsero il programma culturale mediceo, reinterpretando in modo
originale gli stereotipi della tradizione toscana. Sull'esempio del Boccaccio,
Masuccio Salernitano già aveva steso, attorno alla metà del Quattrocento, una
raccolta di novelle in cui le trovate satiriche furono portate ad esiti
estremi, con invettive contro le donne e le gerarchie ecclesiastiche, tanto che
la sua opera fu inserita nell'Indice dei libri proibiti dall'Inquisizione. Un
vero e proprio canone letterario fu inaugurato invece da Jacopo Sannazaro che,
nel suo prosimetrum Arcadia, per la prima volta espose in volgare ed in prosa i
topoi pastorali e mitici della poesia bucolica virgiliana e teocritea,
anticipando di secoli la tendenza del romanzo moderno e contemporaneo ad
adottare come riferimento poetico un sostrato mitologico-esoterico.
L'ispirazione bucolica del Sannazaro si connotò anche come
contrappeso agli stereotipi cortigiani dei petrarchisti, dei provenzali e
siciliani, o dello stilnovismo; e nel ritorno ad una poetica pastorale si legge
una chiara contrapposizione umanistica e filologica della mitologia classica alle
icone femminili dei poeti toscani, fra cui Dante e Petrarca, che velatamente
esprimevano le tendenze politiche e sociali dei comuni e delle signorie
d'Italia. Sannazaro poi fu anche modello e ispirazione per i poeti
dell'Accademia dell'Arcadia, che proprio dal suo romanzo presero il nome della
loro scuola letteraria.
Già dalla prima grande epidemia di peste (XIV secolo) che
coinvolse l'Europa, le città e l'economia del Mezzogiorno estremo furono
pesantemente colpite, tanto da rendere quel territorio, che dalla prima
colonizzazione greca era rimasto per secoli uno dei più produttivi del
Mediterraneo, una vasta campagna spopolata. I territori costieri pianeggianti
(pianura del Metaponto, Sibari, Sant'Eufemia), ormai abbandonati, erano
impaludati e infestati dalla malaria, ad eccezione della piana di Seminara,
dove la produzione agricola accanto a quella della seta sosteneva una debole
attività economica legata alla città di Reggio.
Nel 1444 Isabella di Chiaromonte sposò Don Ferrante e portò
in dote alla corona napoletana il principato di Taranto, che alla morte della
regina nel 1465 fu soppresso e unito definitivamente al regno. Nel 1458 arrivò
nel Mezzogiorno il combattente albanese Giorgio Castriota Scanderbeg per
sostenere il re Don Ferrante contro la rivolta dei baroni. Già precedentemente
lo Scanderbeg venne a sostegno della corona aragonese a Napoli sotto il regno
di Alfonso I. Il condottiero albanese ottenne in Italia una serie di titoli
nobiliari, e i possedimenti feudali annessi, che furono rifugio per le prime
comunità di arbereschi: gli albanesi, esuli a seguito della sconfitta da parte
di Maometto II del partito cristiano nei Balcani, si insediarono in zone del
Molise e della Calabria, fino ad allora spopolate.
Una ripresa delle attività economiche in Puglia tornò con la
concessione del ducato di Bari a Sforza Maria Sforza, figlio di Francesco Maria
Sforza duca di Milano, offerta da Don Ferrante per confermare l'alleanza fra
Napoli e la città lombarda. Succeduto Ludovico il Moro a Sforza Maria, gli
sforzeschi trascurarono i territori pugliesi in favore della Lombardia, finché
il Moro li cedette ad Isabella d'Aragona, erede legittima alla reggenza di
Milano, in cambio del ducato lombardo. La nuova duchessa in Puglia iniziò una
politica di miglioramento urbanistico della città, a cui seguì una leggera
ripresa economica durata fino al governo della figlia Bona Sforza e alla
successione al titolo regale di Napoli di Carlo V.
Nel 1542 il viceré Pedro di Toledo emise il decreto di
espulsione per gli ebrei dal regno di Napoli. Le ultime comunità che già dalla
grande diaspora del II secolo si erano insediate fra Brindisi e Roma sparirono
dalle realtà urbane in cui avevano trovato accoglienza. Nei porti della costa
pugliese e nelle principali città della Calabria, nonché con alcune deboli
presenze in Terra di Lavoro, dopo la crisi dell'economia cenobitica del XVI
secolo, gli ebrei erano l'unica fonte efficiente delle attività finanziarie e
commerciali: oltre al privilegio esclusivo, concesso dalle amministrazioni
locali, di esercitare il prestito di denaro, le loro comunità gestivano
importanti settori del commercio della seta, relitto di quel sistema economico
del mediterraneo che nel Mezzogiorno sopravvisse alle invasioni barbariche e al
feudalesimo.
A Don Ferrante succedette il primogenito Alfonso II nel
1494. Nello stesso anno Carlo VIII di Francia scese in Italia a sconvolgere il
delicato equilibrio politico che le città della penisola avevano raggiunto
negli anni precedenti. L'occasione riguardò direttamente il regno di Napoli:
Carlo VIII vantava una lontana parentela con gli angioini re di Napoli (la
nonna paterna era figlia del Luigi II che tentò di sottrarre il trono
partenopeo a Carlo di Durazzo e a Ladislao I), sufficiente per poter
rivendicare il titolo regale. Con la Francia si schierò anche il ducato di
Milano: Ludovico Sforza, detto il Moro, aveva spodestato gli eredi legittimi
del ducato Gian Galeazzo Sforza e sua moglie Isabella d'Aragona, figlia di
Alfonso II, sposi nel matrimonio con cui Milano aveva suggellato l'alleanza con
la corona aragonese. Il nuovo duca di Milano non si oppose a Carlo VIII, il
quale si diresse contro il regno aragonese; evitando la resistenza di Firenze,
il re francese occupò in tredici giorni la Campania e poco dopo entrò in
Napoli: tutte le province si sottomisero al nuovo sovrano d'oltralpe, salvo che
le città di Gaeta, Tropea, Amantea e Reggio.
Gli aragonesi rifugiarono in Sicilia e cercarono il sostegno
di Ferdinando il Cattolico, che inviò un contingente di truppe capitanate da
Gonzalo Fernández de Córdoba che impegnarono in battaglia in Calabria lo
schieramento francese. L'espansionismo francese spinse però anche il papa
Alessandro VI e Massimiliano d'Asburgo a costituire una Lega contro Carlo VIII,
per combatterlo e infine sconfiggerlo nella battaglia di Fornovo: alla fine del
conflitto la Spagna occupò la Calabria, mentre la repubblica di Venezia
acquisiva i porti principali della costa pugliese (Manfredonia, Trani, Mola,
Monopoli, Brindisi, Otranto, Polignano e Gallipoli). Alfonso II morì durante le
operazioni belliche, nel 1495, e Ferrandino ereditò il trono, ma gli
sopravvisse un solo anno senza lasciare eredi, pur tuttavia riuscendo a
ricostituire velocemente una nuova armata napoletana che al grido di "Ferro!
Ferro!" (derivante dal "desperta ferro" degli Almogàver) scacciò
i francesi di Carlo VIII dal Regno di Napoli.
Nel 1496 divenne re il figlio di Don Ferrante e fratello di
Alfonso II, Federico I, il quale dovette nuovamente affrontare le ambizioni
francesi su Napoli. Luigi XII duca d'Orléans aveva ereditato il regno di
Francia dopo la morte di Carlo VIII; avendo il re d'Aragona Ferdinando il
Cattolico ereditato il trono di Castiglia stipulò un accordo (Trattato di
Granada, novembre 1500) con i sovrani francesi pretendenti il trono di Napoli,
per spartirsi l'Italia e spodestare gli ultimi aragonesi nella penisola. Luigi
XII occupò il Ducato di Milano, dove catturò Ludovico Sforza, e, d'accordo con
Ferdinando il Cattolico, si mosse contro Federico I di Napoli. L'accordo fra
francesi e spagnoli aveva previsto la spartizione del Regno di Napoli fra le
due corone: al sovrano francese, Abruzzo e Terra di Lavoro, nonché il titolo di
rex Hierosolymae e, per la prima volta, di rex Neapolis; al sovrano spagnolo,
Puglia e Calabria con i titoli ducali annessi. Con tale trattato l'11 novembre
del 1500 il titolo di rex Siciliae fu dichiarato decaduto dal papa Alessandro
VI e unito alla corona d'Aragona.
Nell'agosto del 1501 i Francesi entrarono a Napoli; Federico
I di Napoli rifugiò ad Ischia e, infine, cedette la propria sovranità al re di
Francia in cambio di alcuni feudi nell'Angiò. Nonostante l'occupazione del
regno fosse riuscita con successo ad entrambi, i due re non si trovarono
concordi nell'attuazione del trattato di spartizione del regno: restarono
indefinite le sorti della Capitanata e del Contado di Molise, sui cui territori
sia francesi che spagnoli rivendicavano la sovranità. Ereditato il regno di
Castiglia da Filippo il Bello, il nuovo re spagnolo cercò un secondo accordo,
con Luigi XII, per cui i titoli di re di Napoli e duca di Puglia e Calabria
sarebbero andati alla figlia di Luigi, Claudia, e a Carlo V, suo sposo promesso
(1502).
Le truppe spagnole che occupavano Calabria e Puglia,
capitanate da Gonzalo Fernández de Córdoba e fedeli a Ferdinando il Cattolico,
non rispettarono però i nuovi accordi e cacciarono dal Mezzogiorno i francesi,
a cui restò la sola Gaeta fino alla loro definitiva sconfitta nella battaglia
del Garigliano nel dicembre 1503. I trattati di pace che seguirono non furono
mai definitivi, sennonché si stabilì almeno che il titolo di re di Napoli
spettasse a Carlo V e alla futura moglie Claudia. Ferdinando il Cattolico però
continuò a possedere il regno considerandosi erede legittimo dello zio Alfonso
I di Napoli e della antica corona aragonese di Sicilia (regnum Utriusque
Siciliae).
La casa reale aragonese divenuta indigena in Italia si era
estinta con Federico I e Napoli cadde sotto il controllo della corona di Spagna
che vi istituì un vicereame. Il meridione d'Italia restò possedimento diretto
dei sovrani iberici fino alla fine della Guerra di successione spagnola (1713).
La nuova struttura amministrativa, benché fortemente centralizzata, si
sosteneva sull'antico sistema feudale: i baroni ebbero modo così di rafforzare
la propria autorità e i privilegi fondiari, mentre il clero vide accrescere il
proprio potere politico e morale. Gli organi amministrativi più importanti
avevano sede a Napoli ed erano il Consiglio Collaterale, simile al Consiglio
d'Aragona, organo supremo nell'esercizio delle funzioni giuridiche (composto
dal viceré e da tre giureconsulti), la Camera della Sommaria, il Tribunale
della Vicaria e il Tribunale del Sacro Regio Consiglio.
Fu Ferdinando il Cattolico che, detentore dei titoli di Re
di Napoli e di Sicilia, nominò viceré Gonzalo Fernández de Córdoba, che era
stato fino ad allora Gran Capitano dell'esercito napoletano, affidandogli in
sua vece gli stessi poteri di un re[39]. Allo stesso tempo decadeva il titolo
di Gran Capitano e il comando delle truppe reali di Napoli fu affidato al conte
di Tagliacozzo Fabrizio I Colonna con la nomina di Gran Conestabile e
l'incarico di condurre una spedizione in Puglia, contro Venezia che occupava
alcuni porti adriatici. L'operazione militare terminò con successo e i porti
pugliesi tornavano nel 1509 al regno di Napoli. Re Ferdinando inoltre ristabilì
il finanziamento all'università di Napoli disponendo un contributo mensile dal
suo tesoro personale di 2000 ducati l'anno[39], privilegio confermato poi dal
suo successore Carlo V.
Succedettero al de Córdoba prima Juan de Aragón, che
promulgò una serie di leggi contro la corruzione, combatté il clientelismo,
vietò il gioco d'azzardo e l'usura, e poi Raimondo de Cardona, che nel 1510
cercò di reintrodurre l'inquisizione spagnola a Napoli e i primi provvedimenti
restrittivi nei confronti degli ebrei.
Carlo V
Carlo V, figlio di Filippo il Bello e Giovanna la pazza, per
un complicato sistema d'eredità e parentele, si trovò a governare presto un
vastissimo impero: dal padre ottenne la Borgogna e le Fiandre, dalla madre nel
1516 la Spagna, Cuba, il regno di Napoli (per la prima volta col titolo di rex
Neapolis), il Regno di Sicilia e la Sardegna, nonché due anni dopo i domini
austriaci dal nonno Massimiliano d'Asburgo.
Il regno di Francia, ancora una volta, venne a minacciare
Napoli e il dominio di Carlo V sul Mezzogiorno: i francesi dopo aver
conquistato il ducato di Milano al figlio di Ludovico il Moro, Massimiliano,
furono sconfitti e cacciati dalla Lombardia da Carlo V (1515). Il re di Francia
Francesco I nel 1526 entrò allora in una lega, suggellata da Clemente VII e
detta lega santa, con Venezia e Firenze, per cacciare gli spagnoli da Napoli.
Dopo una prima sconfitta della lega a Roma, i francesi risposero con
l'intervento in Italia di Odet de Foix, che si spinse nel Regno di Napoli
assediando Melfi (l'evento passerà alla storia come "Pasqua di
sangue") e la stessa capitale, mentre la Serenissima occupava Otranto e
Manfredonia. Nel pieno vigore della campagna militare di invasione da parte
delle truppe di Francesco I re di Francia, si colloca l’episodio dell’assedio
nell'estate del 1528 della città Catanzaro, rimasta fedele all’imperatore Carlo
V e che si eresse ad ultimo baluardo contro l’avanzare degli invasori. Mentre
Napoli, infatti, veniva accerchiata per mare e per terra, Catanzaro era stretta
d'assedio da soldatesche agli ordini di Simone de Tebaldi, conte di Capaccio, e
di Francesco di Loria, Signore di Tortorella, che erano scesi in armi in Calabria
per occuparla, sottometterla e governarla in nome di Francesco I.
La città fortificata fu cinta d’assedio nei primi giorni del
mese di giugno e resistette per circa tre mesi agli assalti sotto le mura ed
affrontando con coraggio e perizia le battaglie in campo aperto; allo scadere
del mese di agosto, infatti, le truppe assedianti dovettero ritirarsi sancendo
in tal modo la vittoria della Città dei Tre Colli, com'è definita Catanzaro,
che lo stesso Simone de Tebaldi, ritiratosi in Puglia, definì “Cità assai bona
et forte. Durante l'assedio che, senza dubbio, contribuì al mantenimento del
Regno di Napoli all'imperatore Carlo V, in Catanzaro fu battuta una moneta
ossidionale del valore di un carlino. In quegli stessi giorni, la flotta
genovese, inizialmente alleata dei francesi, si mise al soldo di Carlo V, e
l'assedio di Napoli si tramutò nell'ennesima sconfitta dei nemici della Spagna,
che portò poi al riconoscimento da parte di Clemente VII del titolo imperiale
di re Carlo. Venezia perse definitivamente i suoi possedimenti in Puglia
(1528).
Le ostilità della Francia contro i domini spagnoli in Italia
però non cessarono: Enrico II, figlio di Francesco I di Francia, sollecitato da
Ferrante Sanseverino, principe di Salerno, si alleò con i turchi ottomani;
nell'estate del 1552 la flotta turca al comando di Sinan Pascià sorprese la
flotta imperiale, al comando di Andrea Doria e don Giovanni de Mendoza, al
largo di Ponza, sconfiggendola. La flotta francese però non riuscì a
ricongiungersi con quella turca e l'obiettivo dell'invasione del napoletano
fallì.
Nel 1555, a seguito di una serie di sconfitte in Europa,
Carlo abdicò e divise i suoi domini fra Filippo II, a cui lasciò la Spagna, le
colonie d'America, i Paesi Bassi spagnoli, il regno di Napoli, il regno di
Sicilia e la Sardegna, e Ferdinando I d'Asburgo a cui andò l'Austria, la
Boemia, l'Ungheria e il titolo di imperatore.[6][28][39]
I vicereami del duca
d'Alba, di Hurtado de Mendoza e la pestilenza
I vicereami che si succedettero sotto il regno di Filippo II
furono per lo più contrassegnati da operazioni belliche che non apportarono
benessere alla popolazione di Napoli. A peggiorare la situazione incorse la
pestilenza che si diffuse in tutta Italia attorno al 1575, anno della nomina a
viceré di Íñigo López de Hurtado de Mendoza. Napoli, in quanto città portuale,
fu estremamente esposta alla diffusione del morbo e le sue attività economiche
principali furono minate alla base. Negli stessi anni sbarcarono prima a
Trebisacce, in Calabria, poi in Puglia, le navi del sultano ottomano Murad III,
che saccheggiarono i porti principali dello Jonio e dell'Adriatico. Fu
necessario incrementare la militarizzazione delle coste, perciò il de Mendoza
fece costruire un nuovo arsenale nel porto di Santa Lucia su progetto di
Vincenzo Casali. Inoltre vietò ai funzionari pubblici di intrecciare legami
sacramentali e parentele religiose.
Dalla pace di
Cateau-Cambresis alla fine del dominio spagnolo
Con la pace di Cateau-Cambresis la storiografia tradizionale
designa la fine delle ambizioni francesi nella penisola italiana. Il clima di
riforme religiose che coinvolgeva all'epoca sia l'opposizione luterana al
papato di Roma, sia la stessa chiesa cattolica, nei territori del vicereame di
Napoli si contestualizzò nella crescita dell'autorità civile del clero e delle
gerarchie ecclesiastiche. Nel 1524, a Roma Gian Pietro Carafa, all'epoca
vescovo di Chieti, aveva fondato la congregazione dei teatini (da Teate, antico
nome di Chieti) che si diffuse presto in tutto il regno, affiancata poi dai
collegi dei gesuiti, che furono per secoli l'unico riferimento culturale per le
province dell'Italia meridionale. Il concilio di Trento imponendo nuove regole
alle diocesi, quali l'obbligo della residenza nella propria sede a vescovi,
parroci e abati, l'istituzione di seminari diocesani, dei tribunali
d'inquisizione e, più tardi, dei monti frumentari[52], trasformò le diocesi del
vicereame di Napoli in veri e propri organi di potere, fortemente radicati nel
territorio e nelle province, poiché erano l'unico sostegno sociale, giuridico e
culturale al controllo dell'ordine civile. Fra gli altri ordini monastici che
ebbero molto successo a Napoli in questi anni si ricordano i Carmelitani
Scalzi, le suore Teresiane, i Fratelli della Carità, i Camaldolesi e la
Congregazione dell'Oratorio di San Filippo Neri.
De Castro, Téllez-Girón I, Juan de Zúñiga y Avellaneda e la
rivolta in Calabria
Tommaso Campanella
Il 16 luglio 1599 giunse a Napoli il nuovo viceré Fernando
Ruiz de Castro. Il suo operato si limitò principalmente ad operazioni militari
contro le incursioni turche in Calabria di Amurat Rais e Sinan Pascià.
Nello stesso anno della sua nomina a viceré, il domenicano
Tommaso Campanella, che ne La città del Sole delineava uno Stato comunitario
basato su una presunta religione naturale, organizzò una congiura contro
Fernando Ruiz de Castro nella speranza di instaurare una repubblica con capitale
a Stilo (Mons Pinguis). Il filosofo e astrologo calabrese già era stato
prigioniero del Sant'Uffizio e confinato in Calabria: qui col sostegno
dottrinale e filosofico della tradizione escatologica gioachimita[54] mosse i
primi passi per persuadere monaci e religiosi ad aderire alle sue ambizioni
rivoluzionarie, fomentando una congiura che si estese fino a coinvolgere non
solo l'intero ordine domenicano delle Calabrie, ma anche i locali ordini minori
come agostiniani e francescani, e le principali diocesi da Cassano a Reggio
Calabria. Fu la prima rivolta in Europa a schierarsi contro l'ordine dei
gesuiti e la loro crescente autorità spirituale e secolare. La congiura fu
sedata e Campanella, che si spacciò per pazzo, scampò al rogo e all'ergastolo.
Qualche anno prima (1576) a Napoli veniva processato per eresia anche un altro
domenicano, il filosofo Giordano Bruno, le cui speculazioni e tesi furono
ammirate successivamente da diversi studiosi dell'Europa luterana.
Il de Castro inaugurò inoltre una politica incentrata sul
finanziamento statale per la costruzione di diverse opere pubbliche: sotto la
direzione dell'architetto Domenico Fontana, a Napoli dispose la costruzione del
nuovo palazzo reale nell'attuale piazza del Plebiscito. Caratterizzato
prevalentemente da opere urbanistiche fu il mandato di Pedro Téllez-Girón y de
la Cueva: costui sistemò la viabilità della capitale e delle province pugliesi.
Gli succedette Juan de Zúñiga y Avellaneda, il cui governo fu orientato al
recupero dell'ordine nelle province: arginò il brigantaggio negli Abruzzi con
il supporto dello Stato Pontificio e in Capitanata; ammodernò la viabilità fra
Napoli e la Terra di Bari. Nel 1593 furono fermati dal suo esercito gli
Ottomani che tentarono di invadere la Sicilia.
Filippo III di Spagna
e i vicereami di de Guzmán, Pimentel e di Pedro Fernandez de Castro
Quando a Filippo II succedette al trono di Spagna il figlio,
Filippo III, l'amministrazione del vicereame di Napoli era affidata a Enrique
de Guzmán, conte di Olivares. Il regno di Spagna era al suo massimo splendore,
unendo la corona d'Aragona, i domini italiani, a quella di Castiglia e del
Portogallo. A Napoli il governo spagnolo fu debolmente attivo nella
sistemazione urbanistica della capitale: risalgono a de Guzman la costruzione
della fontana del Nettuno, un monumento a Carlo I d'Angiò e la sistemazione
della viabilità.
L'altro governo che operò attivamente con una discreta
attività politica ed economica nel regno di Napoli fu quello del viceré Juan
Alonso Pimentel de Herrera. Il nuovo sovrano dovette difendere ancora i
territori del Mezzogiorno dalle incursioni navali turche e sedare le prime
rivolte contro il fiscalismo, che nella capitale cominciavano a minacciare il
palazzo. Per prevenire le aggressioni ottomane condusse una guerra contro
Durazzo, distruggendo la città e il porto in cui trovavano asilo i corsari
turchi e albanesi che spesso aggredivano le coste del regno. A Napoli tentò di
combattere la delinquenza, in quegli anni sempre più in crescita, anche contro
le disposizioni pontificie, opponendosi al diritto d'asilo che garantivano gli
edifici di culto cattolici: per ciò alcuni suoi funzionari furono scomunicati.
La politica fortemente nazionale del Pimentel però interessò
anche diverse opere urbanistiche e architettoniche: costruì viali e ampliò
strade, da Poggioreale a via Chiaja; a Porto Longone, nello Stato dei Presidi
dispose la costruzione dell'imponente fortezza.
Al Pimentel seguì nel 1610 Pedro Fernández de Castro, i cui
interventi furono prevalentemente concentrati nella città di Napoli. Ordinò la
ricostruzione dell'università, le cui lezioni dall'inizio del dominio spagnolo
erano state ricoverate nei vari chiostri cittadini, finanziando un nuovo
edificio e rimodernando il sistema dell'insegnamento e delle cattedre. Fiorì
sotto la sua reggenza l'Accademia degli Oziosi, a cui aderì fra gli altri il
Marino e il Della Porta. Costruì il collegio dei gesuiti intitolato a San
Francesco Saverio e un complesso di fabbriche presso porta Nolana.[39] In Terra
di Lavoro iniziò le prime opere di bonifica della pianura del Volturno,
affidando a Domenico Fontana il progetto dei Regi Lagni, l'opera di
canalizzazione e messa a regime delle acque del fiume Clanio tra Castel
Volturno e Villa Literno, laddove fino ad allora paludi e laghi costieri (come
il Lago Patria) avevano reso buona parte della Campania Felix dei romani un
territorio malsano e spopolato.
Vendita di titoli
nobiliari
Per alimentare il finanziamento legato alla vendita di
titoli nobiliari, la corona spagnola decide di istituire altri titoli
nobiliari. È del 1627 la decisione regia di introdurre in Italia altri sette
titoli di principi (diventati poi dieci, nove di duca, sei di marchese ed uno
di conte.) abbiamo così una vera alluvione di titoli: nel 1606: principi 27
duchi 48 marchesi 76 conti 62 nel 1629: principi 57 duchi 83 marchesi 121 conti
73 nel 1640: principi 67 duchi 107 marchesi 148 conti 67 Vera alluvione di
titoli si ebbe tra il 1621 ed il 1629 nella sola Sicilia in tale periodo furono
venduti ben nove titoli di principe … ma il prezzo ridotto dei titoli
napoletani invogliava baroni e magistrati a ricorrere al re per acquisirne uno,
che poteva anche non essere il primo
La morte di Filippo
III e i governi sotto Filippo IV e Carlo II
Fu caratterizzato prevalentemente da operazioni militari il
governo di Pedro Téllez-Girón y Velasco Guzmán y Tovar, che, nella guerra fra
Spagna e Savoia per il Monferrato, condusse una spedizione contro la repubblica
di Venezia, in quegli anni alleata della monarchia sabauda. La flotta
napoletana assediò e saccheggiò Traù, Pola e l'Istria.
Gli succedette il cardinale Antonio Zapata, tra carestie e
rivolte, e, dopo la morte di Filippo III, Antonio Álvarez de Toledo y Beaumont
de Navarra e Fernando Afán de Ribera che dovettero affrontare i problemi di un
brigantaggio nelle province sempre più diffuso e radicato. Li seguì Manuel de
Acevedo y Zúñiga, che finanziò la fortificazione dei porti di Barletta, Ortona,
Baia e Gaeta, con un governo fortemente impegnato nel sostegno economico
dell'esercito e della flotta. Il forte impoverimento del tesoro statale
comportò, sotto l'amministrazione di Ramiro Núñez de Guzmán, una devoluzione
dell'amministrazione dei domini regi alle corti dei baroni, e la conseguente
crescita dei poteri feudali. Sotto il regno di Carlo II si ricordano i
vicereami di Fernando Fajardo y Álvarez de Toledo e Francisco de Benavides, con
politiche impegnate a contenere problemi ormai endemici come il brigantaggio,
clientelismo, inflazione e scarsità di risorse alimentari.
Napoli fra
irrazionalismo e rivolte politiche
La tradizione umanistica e cristiana fu l'unico riferimento
per le prime ambizioni rivoluzionarie a carattere nazionale che cominciarono a
emergere, per la prima volta in Europa, tra Roma e Napoli, nell'irrazionalismo
del barocco, nell'urbanistica popolare (quartieri spagnoli), nel misticismo
religioso e nella speculazione politica e filosofica. Se nella campagna un
forte ritorno all'assetto feudale ricondusse ai seminari e alle diocesi il
controllo dell'arte e della cultura, Napoli fu la prima città in Italia in cui
nacquero, seppur disorganizzate e ignorate dai governi, le prime forme
letterarie di intolleranza al clima culturale che seguì la controriforma.
Accetto, Marino e Basile per primi nella letteratura italiana trasgredirono i
paradigmi poetici che prendevano come modello le opere tassiane, e con una
forte spinta eversiva nei riguardi dei canoni artistici dei loro contemporanei
d'Italia, rifiutarono lo studio dei classici come esempio d'armonia e stile e
le teorie estetiche e linguistiche dei puristi, che nascevano con la riproposizione
dottrinale del latino scolastico e liturgico (Chiabrera, Accademia della Crusca,
Accademia del Cimento). Sono gli anni in cui nella commedia dell'arte
napoletana si impose Pulcinella, la più celebre maschera dell'inventiva
popolare meridionale. Il cosentino Tommaso Cornelio, formatosi secondo la
tradizione telesiana e cosentiniana (allievo di Marco Aurelio Severino),
professore di matematica e medicina, portò a Napoli nella seconda metà del XVII
secolo la filosofia e la matematica di Cartesio e del Galilei, nonché la fisica
e l'etica atomistica di Gassendi costituendo, in contrasto con la locale
tradizione tomistica e galenica, la base delle future scuole del pensiero
moderno partenopeo.
Simile per ambizioni al Campanella, ma spinto da ragioni
molto più prosaiche, sotto il vicereame del duca d'Arcos Rodríguez Ponce de
León, Masaniello nel 1647 fu a capo di una rivolta contro la pesante pressione
fiscale spagnola. Egli riuscì ad ottenere dal viceré la costituzione di un
governo popolare e, per sé, il titolo di Capitano generale del fedelissimo
popolo, finché poi non fu ucciso dagli stessi rivoltosi. Prese il suo posto
Gennaro Annese che con il sostegno di Enrico II di Guisa proclamò la Real
Repubblica Napoletana. Il nuovo governo fu di breve durata: benché le rivolte
si fossero estese alla campagna, nel 1649 le truppe spagnole guidate da Don
Giovanni d'Austria ripristinarono il precedente regime. La situazione di forte
repressione e di disorganizzazione della cultura napoletana, le precedenti
esperienze umanistiche e filosofiche gettarono le basi per lo sviluppo degli
studi giuridici ed economici che avverrà nel secolo successivo.
Le province
orientali: Terra di Bari, Terra d'Otranto e Calabrie
Dal XVI secolo la stabilizzazione dei confini adriatici dopo
la battaglia di Lepanto (1571) e la fine delle minacce turche sulle coste
italiane portarono, salvo rare eccezionia un periodo di relativa tranquillità
nell'Italia meridionale, durante il quale baroni e feudatari poterono sfruttare
gli antichi diritti fondiari per consolidare privilegi economici e produttivi.
Fra il XVI e il XVII secolo sorse in Puglia e in Calabria
quell'economia chiusa e provinciale che caratterizzerà le regioni fino
all'Unità d'Italia: l'agricoltura per la prima volta divenne di sussistenza;
gli unici prodotti destinati all'esportazione erano olio e seta, i cui tempi di
produzione stabili, ciclici e ripetitivi non potevano sfuggire al controllo
dell'aristocrazia fondiaria. Così tra Terra di Bari e Terra d'Otranto la
produzione olearia incrementò un relativo benessere, testimoniato dal capillare
sistema di masserie rurali e, in città, dal rifiorire delle opere urbanistiche
e architettoniche (barocco leccese). Dopo la perdita dei domini della
Serenissima nel Mediterraneo, i porti di Brindisi e Otranto rimasero un
prezioso mercato di Venezia per l'approvvigionamento dei prodotti agroalimentari,
persi fra gli altri anche i mercati di Ortona e Lanciano dopo la conversione
dei territori abruzzesi all'economia pastorale. Molto simile la condizione
delle Calabrie le cui province, prive di sbocchi commerciali e di porti
competitivi, videro uno sviluppo parziale nella sola zona di Cosenza.
Attorno alle classi più abbienti fiorì un particolare tipo
di umanesimo, fortemente conservatore, caratterizzato dal culto della
tradizione classica latina, della retorica e del diritto. Già prima della nascita
dei seminari, sacerdoti e aristocratici laici sovvenzionavano centri di cultura
che costituirono, in Puglia e Calabria, l'unica forma di modernizzazione civile
che le innovazioni amministrative e burocratiche del regno aragonese
richiedevano, mentre l'economia e il territorio rimanevano esclusi dai
cambiamenti in atto nel resto d'Europa.
Dal XV secolo scomparvero le ultime tracce della tradizione
culturale e sociale greca: nel 1467 la diocesi di Hieracium abbandonava l'uso
del rito greco nella liturgia in favore del latino; similmente nel 1571 la
diocesi di Rossano, nel 1580 l'arcidiocesi di Reggio, nel 1586 l'arcidiocesi di
Siponto e poco dopo quella di Otranto. La latinizzazione del territorio
iniziata con i normanni, continuata con gli angioini, trovò il suo
completamento nel XVII secolo, parallelamente al forte accentramento del potere
in mano all'aristocrazia fondiaria, tra Reggio e Cosenza. In questi anni il
Campanella coinvolse tali diocesi, con il sostegno di speculazioni astrologiche
e filosofiche orientali, nella rivolta contro il dominio spagnolo e l'ordine
dei gesuiti; furono anche gli anni del grande sviluppo delle certose di Padula
e di Santo Stefano, e della nascita dell'Accademia Cosentina, che vedrà fra i
suoi allievi e maestri Bernardino Telesio e Sebezio Amilio.
La successione di
Carlo II e la fine del dominio spagnolo e nascita della Casata Borbone delle
due Sicilie Napoletana
Già dal 1693 a Napoli, come nel resto dei domini spagnoli
degli Asburgo, si iniziò a discutere delle sorti del regno di Carlo II, il
quale lasciava gli Stati della sua corona senza eredi diretti. Fu in
quest'occasione che nel Mezzogiorno d'Italia cominciò ad emergere una coscienza
civile politicamente organizzata, trasversalmente composta sia dagli
aristocratici che dai piccoli mercanti e artigiani cittadini, schierata contro
i privilegi e le immunità fiscali del clero(la relativa corrente giuridica è
nota agli storici come anticurialismo napoletano) e ambiziosa di fronteggiare
il banditismo[67]. Questa sorta di partito nel 1700, alla morte di Carlo II, si
oppose al testamento del sovrano spagnolo che designava erede delle corone
spagnola e napoletana Filippo V di Borbone, duca d'Angiò, sostenendo invece le
pretese di Leopoldo I d'Asburgo, il quale riteneva legittimo erede l'arciduca
Carlo d'Asburgo (poi imperatore con il nome di Carlo VI). Tale dissidio
politico portò il partito filo-austriaco napoletano ad un'esplicita presa di
posizione antispagnola, seguita dalla rivolta nota come congiura di Macchia,
poi fallita. Dopo la crisi politica il governo spagnolo tentò con la
repressione di riportare l'ordine nel regno, mentre la crisi finanziaria era
sempre più disastrosa. Nel 1702 fallì il Banco dell'Annunziata; in questi anni
Filippo V, in viaggio a Napoli, nel 1701 condonò i debiti delle università. Gli
ultimi viceré per conto della Spagna furono Luis Francisco de la Cerda y
Aragón, impegnato ad arginare banditismo e contrabbando, e Juan Manuel
Fernández Pacheco Cabrera, il cui mandato di governo fu impedito dalla guerra e
quindi dall'occupazione austriaca del 1706.
Il trattato di Utrecht nel 1713 poneva fine alla guerra di
successione spagnola: in base agli accordi sanciti dai firmatari, il regno di
Napoli con la Sardegna finiva sotto il controllo di Carlo VI d'Asburgo; il
regno di Sicilia invece andava ai Savoia, ristabilendo l'identità territoriale
della corona del rex Siciliae, con la condizione che, una volta estinta la
discendenza maschile dei Savoia, l'isola e il titolo regale annesso sarebbero
tornati alla corona spagnola. Con la pace di Rastatt, un anno dopo anche Luigi
XIV di Francia riconosce i domini asburgici in Italia. Nel 1718 Filippo V di
Spagna tentò di ristabilire il proprio dominio a Napoli e in Sicilia con il
sostegno del suo primo ministro Giulio Alberoni: contro la Spagna intervennero
però direttamente Gran Bretagna, Francia, Austria e Province Unite che
sconfissero la flotta di Filippo V nella battaglia di Capo Passero. Il trattato
dell'Aja che ne seguì (1720) decretò il passaggio del regno di Sicilia agli
Asburgo: pur mantenendosi come entità statale separata, passò insieme a Napoli
sotto la corona austriaca mentre la Sardegna diventava possesso dei duchi
sabaudi, con la nascita del regno di Sardegna. Carlo di Borbone veniva
designato erede al trono nel Ducato di Parma e Piacenza.
L'inizio del dominio austriaco, seppur costretti ad
affrontare una situazione finanziaria disastrosa, segnò una profonda riforma
nelle gerarchie politiche dello Stato napoletano, a cui seguì un discreto
sviluppo dei principi illuministici e riformatori. Furono da allora reperibili
a Napoli, oltre che i testi cartesiani, le opere di Spinoza, Giansenio, Pascal
e le espressioni della cultura tornano in diretto contrasto con il clero
cittadino, sulla strada dell'anticurialismo napoletano già aperta da giuristi
famosi come Francesco d'Andrea, Giuseppe Valletta e Costantino Grimaldi.
Durante il vicereame austriaco, nel 1721, Pietro Giannone pubblica il suo testo
più celebre, la Istoria civile del Regno di Napoli, un importantissimo
riferimento culturale per lo Stato napoletano, che diviene celebre in tutta
Europa (ammirato da Montesquieu) per come ripropone in termini moderni il machiavellismo
e subordina al diritto civile il diritto canonico[70]. Scomunicato
dall'arcivescovo di Napoli, trovò rifugio a Vienna, senza poter più tornare
nell'Italia meridionale. In quest'ambiente, tra Napoli e il Cilento, visse
anche Giovan Battista Vico che, nel 1723, pubblicò i suoi Principi di una
scienza nuova, e Giovanni Vincenzo Gravina, studioso a Napoli di diritto
canonico, il quale fondò a Roma, con Cristina di Svezia, l'accademia
dell'Arcadia, riproponendo la lettura laica dei classici. Il suo allievo
Metastasio proprio a Napoli formò sul Tasso e sul Marino le innovazioni
poetiche che diedero al melodramma italiano fama internazionale.
I primi viceré austriaci furono Georg Adam von Martinitz e
Virico Daun, seguiti dall'amministrazione del cardinale Vincenzo Grimani che,
favorevole ai circoli anticuriali napoletani, attuò la prima politica di
risanamento finanziario, tentando di ridurre le spese di governo e al sequestro
delle rendite dei feudatari meridionali che a seguito dell'occupazione austriaca
erano contumaci. I viceré che gli succedettero (Carlo Borromeo Arese ed il Daun
al secondo mandato) trovarono un lieve bilancio positivo nelle entrate del
regno, grazie anche al saldo delle spese che le operazioni militari avevano
richiesto. Nel 1728 il viceré Michele Federico Althann istituì il pubblico
Banco di San Carlo, per finanziare l'imprenditoria privata di stampo
mercantilistico, ricomprare le quote di debito pubblico e liquidare la
manomorta ecclesiastica Lo stesso viceré si guadagnò l'inimicizia dei gesuiti
per aver tollerato la pubblicazione delle opere degli anticurialisti Giannone e
del Grimaldi.
Un nuovo tentativo di invasione però operato da Filippo V di
Spagna, sebbene si fosse concluso con la sconfitta di quest'ultimo, riportò il
bilancio del regno nuovamente in deficit: il problema persistette per tutto il
successivo periodo della dominazione austriaca; nel 1731 Aloys Thomas Raimund
promosse l'istituzione di una "Giunta delle Università" per
controllare i bilanci dei piccoli centri delle provincie, assieme alla Giunta
della Numerazione per il riordino delle amministrazioni finanziarie, istituita
nel 1732[75]. I nuovi catasti furono però ostacolati dai proprietari terrieri e
dal clero, che voleva scongiurare i propositi del governo di tassare i beni
ecclesiastici. L'ultimo dei viceré austriaci, Giulio Borromeo Visconti, vide
l'invasione borbonica e la conseguente guerra, lasciando però ai nuovi sovrani
una situazione finanziaria assai migliore rispetto a quella lasciata dai viceré
spagnoli.
I Borbone
Carlo di Borbone re
di Napoli
La politica di riforme iniziata tiepidamente sotto il
vicereame di Carlo VI d'Asburgo fu ripresa dalla corona dei Borbone la quale,
attenta agli interessi napoletani, intraprese una serie di innovazioni
amministrative e politiche, estendendole a tutto il territorio del regno. Carlo
di Borbone, già duca di Parma e Piacenza, figlio di Filippo V re di Spagna e di
Elisabetta Farnese, a seguito della battaglia di Bitonto, conquistò il regno di
Napoli e fece il suo ingresso in città il 10 maggio 1734, assumendo il titolo
di Neapolis rex, secondo la consuetudine asburgica (titolo di Carlo V); fu
quindi incoronato rex utriusque Siciliae il 3 luglio 1735 nella Cattedrale di
Palermo. La conquista dei due regni da parte dell'Infante fu resa possibile
dalle manovre della regina di Spagna, la quale, approfittando della guerra di
successione polacca nella quale Francia e Spagna combattevano il Sacro Romano
Impero, rivendicò a suo figlio le province dell'Italia meridionale, ottenute
nel 1734 in seguito alla battaglia di Bitonto. L'8 giugno 1735 sostituì al
Consiglio Collaterale la Real Camera di Santa Chiara. Affidò la formazione del
governo al conte di Santisteban e nominò Bernardo Tanucci ministro di
giustizia.
Il regno non ebbe un'effettiva autonomia dalla Spagna fino
alla pace di Vienna, nel 1738, con la quale si concluse la guerra di
successione polacca. A causa delle ripetute guerre e dei rischi che correva
Napoli, Tanucci ipotizzò lo spostamento della capitale a Melfi (già prima
capitale del dominio normanno), vedendo in essa un punto altamente strategico:
collocata nella zona continentale, protetta dalle montagne e lontana dalle
minacce provenienti dal mare aperto.
Nell'agosto 1744 l'esercito di Carlo, forte ancora della
presenza di truppe spagnole, sconfisse nella Battaglia di Velletri gli
austriaci che tentavano di riconquistare il regno. Alla situazione precaria in
cui versava la corona borbonica sul regno di Napoli corrispose una politica
ambigua di Carlo III: egli all'inizio del suo governo cercò di assecondare le
posizioni politiche delle gerarchie ecclesiastiche, favorendo l'istituzione a
Palermo di un tribunale d'Inquisizione e non contrastando la scomunica di
Pietro Giannone. Quando però la fine delle ostilità in Europa scongiurarono le
minacce al suo titolo regale, nominò primo ministro Bernardo Tanucci, la cui
politica fu rivolta subito ad arginare i privilegi ecclesiastici: nel 1741, con
un concordato furono drasticamente ridotti il diritto d'asilo nelle chiese ed
altre immunità al clero; i beni ecclesiastici furono sottoposti a tassazione.
Successi analoghi non si ebbero tuttavia nella lotta alla feudalità nelle
province periferiche del regno. In questi anni fu istituita la Giunta di
Commercio per favorire la liberalizzazione del commercio, che si dimostrò un
organo solo parzialmente efficace perché fortemente contrastato da chi non
voleva fossero rimossi i privilegi feudali nelle aree rurali.
Le riforme tuttavia, pur restaurando i vecchi sistemi
catastali, riuscirono ad imporre una tassazione ai beni ecclesiastici pari alla
metà della tassazione ordinaria dei laici mentre i beni feudali restarono
vincolati al sistema fiscale della adoa. L'Erario si giovò dei nuovi
provvedimenti e contemporaneamente vi fu un sensibile sviluppo dell'economia,
l'aumento della produzione agricola e degli scambi commerciali connessi. Nel
1755 fu istituita presso l'Università di Napoli la prima cattedra di economia
in Europa, denominata cattedra di commercio e di meccanica. I corsi (in
italiano e non in latino) furono tenuti da Antonio Genovesi che, persa la
cattedra di teologia a seguito di accuse nei suoi riguardi di ateismo, continuò
i suoi studi nell'economia e nell'etica. I successi ottenuti inaugurarono un
progetto d'intervento più radicale da compiersi nella Terra di Lavoro. Il primo
passo interessò la costruzione della reggia di Caserta e la modernizzazione
urbanistica dell'omonima città, che fu riedificata sui disegni razionalistici
di Luigi Vanvitelli. Negli stessi anni nel cuore della capitale del regno
invece Giuseppe Sammartino realizzava uno fra i più celebri complessi scultorei
d'Italia, nella Cappella Sansevero: la cura estremamente formale e la
modernizzazione stilistica di cui erano dotate le sue opere generarono
polemiche negli ambienti cattolici napoletani, abituati agli esiti artistici
del manierismo e del barocco.
Presso il palazzo reale di Portici, che sarebbe dovuto
essere la residenza di Carlo III prima della costruzione della Reggia di
Caserta, il re istituì un grande museo archeologico in cui furono raccolti i
reperti dei recenti scavi di Ercolano e Pompeii. Per la prima volta in Italia,
dall'istituzione del ghetto di Roma, a Napoli fu promulgata in questi anni una
legge per garantire agli ebrei, espulsi dal regno due secoli prima, gli stessi
diritti di cittadinanza (ad esclusione della possibilità di possedere titoli
feudali) riservati fino ad allora ai cattolici.
Re Ferdinando IV
Nel 1759 re Ferdinando VI di Spagna, nonché fratello di
Carlo III di Napoli, muore. Non lasciando eredi diretti il trono deve essere
assunto da Carlo che, rispettando il trattato dei due regni che stabiliva che
le due corone non dovessero mai essere unite, deve scegliere un successore per
i due regni di Napoli e Sicilia. Colui che fino ad allora era stato considerato
l'erede al Trono, Filippo, nato il 13 giugno 1747, verrà messo sotto
osservazione per due settimane da un comitato composto da alti funzionari,
magistrati e sei medici per valutare il suo stato mentale. Il loro verdetto fu
la sua completa imbecillità, escludendolo così dal Trono. Il secondogenito
Carlo Antonio, nato nel 1748, invece seguirà il padre come erede del Trono di
Spagna. La scelta quindi cade sul terzogenito Ferdinando, nato il 12 gennaio
1751, che assunse il titolo di Ferdinando IV di Napoli.
La sua nascita non fu considerato un evento speciale: al
contrario dei suoi fratelli maggiori, non furono scelte come nutrici dame
nobili, ma una popolana di nome Agnese Rivelli, una donna bella e grassa ma
ignorante. Era diventato consuetudine nella corte di Napoli, prendendo esempio
da quella di Spagna, affiancare al principino un popolano della stessa età.
Egli, chiamato menino, doveva essere sgridato al posto del principe, il quale
in questo modo doveva capire che, se un giorno fosse divenuto re, nel caso
avesse fatto errori durante il suo governo, il male sarebbe caduto sull'intero
popolo. Agnese Rivelli presentò ai reali per questo il figlio Gennaro. Questo
sarebbe diventato amico inseparabile di Ferdinando ed in effetti Ferdinando
impediva che il menino fosse sgridato al suo posto.
Queste le parole di Carlo III di Napoli al momento
dell'abdicazione: “Raccomando umilmente a Dio l'Infante Ferdinando che in
questo medesimo istante diventa mio successore. A lui lascio il regno di Napoli
con la mia paterna benedizione, affidandogli il compito di difendere la
religione cattolica e raccomandandogli la giustizia, la clemenza, la cura,
l'amore per i popoli, che avendomi fedelmente servito e obbedito, hanno diritto
alla benevolenza della mia reale famiglia”. Ferdinando allora aveva solo 8 anni
e per questo fu costituito dallo stesso Carlo III un Consiglio di Reggenza.
Principali esponenti furono Domenico Cattaneo, principe di San Nicandro ed il
marchese Bernardo Tanucci, quest'ultimo il capo del Consiglio di Reggenza.
Durante il periodo della reggenza ed in quello successivo, fu principalmente il
Tanucci ad avere in mano le redini del Regno ed a continuare le riforme
iniziate in età carolina. In campo giuridico, molti progressi furono resi
possibili dall'appoggio dato al ministro Tanucci da Gaetano Filangieri, il
quale, con la sua opera "Scienza della legislazione" (iniziata nel
1777), può essere considerato tra i precursori del diritto moderno. Nel 1767 il
re emise l'atto di espulsione nei confronti dei gesuiti dal territorio del
regno che ne comportò l'alienazione dei beni, conventi e centri di cultura, sei
anni prima che papa Clemente XIV decretasse la soppressione dell'ordine.
Nel frattempo Ferdinando invece passava le sue giornate
giocando con il suo amico Gennaro, vestendosi e mescolandosi con i popolani, i
quali lo trattavano e gli parlavano in assoluta libertà. Il 12 gennaio 1767
Ferdinando, avendo raggiunto i 16 anni, divenne re con pieni poteri. In quello
stesso giorno il Consiglio di Reggenza divenne Consiglio di Stato. Al momento
della cerimonia però Ferdinando non si trovò. Egli infatti, dimentico
dell'importante avvenimento, era con i suoi amati lipariti, un corpo scelto di
allievi con i quali giocava a fare la guerra. Di fatto fu ancora il Tanucci a
governare. Egli, continuando a intrattenere rapporti con l'ormai ex re di
Napoli e con l'imperatrice Maria Teresa d'Austria, organizzò ripetuti tentativi
di sposare Ferdinando a un'arciduchessa austriaca, facendolo fidanzare con
diverse figlie dell'imperatrice, che tuttavia morirono tutte prima delle nozze.
Alla fine i suoi sforzi diedero frutti, risolvendosi però nella fine della sua
carriera politica.
Nel 1768 Ferdinando sposò infatti Maria Carolina
d'Asburgo-Lorena, figlia dell'imperatrice Maria Teresa e sorella della regina
di Francia Maria Antonietta. Come di consuetudine prima del matrimonio fu
stipulato un contratto matrimoniale il quale prevedeva che Maria Carolina
dovesse partecipare al Consiglio di Stato una volta dato alla luce l'erede
maschio. L'anno dopo Ferdinando IV conoscerà il cognato Pietro Leopoldo, allora
granduca di Toscana, nonché fratello di Carolina e marito di Maria Luisa,
sorella di Ferdinando. Spesso Ferdinando, per la sua ignoranza, rimaneva a
lungo in silenzio.
In questi stessi anni si sviluppano le associazioni
massoniche, che basano i loro ideali sulla libertà e l'uguaglianza di ogni
individuo. Ciò non è mal visto da Maria Carolina, la quale al pari degli altri
regnanti considera il suo titolo divino, ma al contrario di altri e al pari
della sua famiglia crede che tra i suoi compiti ci deve essere la felicità dei
suoi popoli; esse erano però avversate dai conservatori, tra i quali Tanucci.
Costui tuttavia vede diminuire il suo prestigio nel 1775 quando Maria Carolina,
dopo aver dato il primo figlio maschio alla luce, Carlo Tito, entra a far parte
del Consiglio di Stato. Maria Carolina parteciperà più attivamente alla vita
politica rispetto al marito e spesso lo sostituirà.
Nel 1776 Tanucci segnò il suo ultimo successo, rendendosi
promotore dell'abolizione di un simbolico atto di vassallaggio, l'omaggio della
chinèa, che rendeva formalmente il regno di Napoli uno Stato tributario del
pontefice di Roma. Nel 1777 il ministro fu sostituito dal siciliano Marchese della
Sambuca, uomo più gradito a Maria Carolina, che proprio Tanucci aveva portato a
Napoli. Quanto a Ferdinando, il 14 luglio 1796 dichiarava soppresso il ducato
di Sora, insieme allo Stato dei Presidi le ultime tracce delle signorie
rinascimentali in Italia, e disponeva il compenso da versare al duca Antonio II
Boncompagni. Si impegnò inoltre personalmente nella politica di riforma
territoriale inaugurata da suo padre: in Terra di Lavoro dispose la costruzione
della colonia industriale di San Leucio (1789), interessante esperimento di
legislazione sociale e di sviluppo manifatturiero.
Nel 1778 arrivò a
Napoli John Acton, uomo della marina militare del Granducato di Toscana,
che la regina Maria Carolina aveva strappato al fratello Leopoldo. I reali di
Napoli e Sicilia dovevano rivedere gli accordi con stati terzi in fatto di
pesca, di navigazione mercantile e bellica, eliminare gli istituti aragonesi.
Nel 1783 si venne a sapere che il primo ministro Marchese della Sambuca aveva
lucrato sul tesoro in tutti i modi possibili, per esempio ricomprandosi a poco
prezzo tutti i possedimenti espropriati ai gesuiti di Palermo. Nonostante ciò
il suo governo si protrasse fino al 1784, quando si scoprì che fu uno dei tanti
che mise in giro la notizia che John Acton e Maria Carolina fossero amanti. Non
si è mai saputo se ciò fosse vero, fatto sta che Maria Carolina convinse
Ferdinando che invece era falso. Divenne primo ministro il settantunenne
marchese Domenico Caracciolo, già viceré di Sicilia, mentre John Acton divenne
Consigliere reale. Lo stesso Acton succederà a Caracciolo il 16 luglio 1789,
giorno della sua morte.
Tutti questi avvenimenti prepararono il terreno alla
Repubblica Napoletana del 1799. Infatti Maria Carolina, che nei primi anni di
regno si era mostrata sensibile alle istanze di rinnovamento e moderatamente
favorevole alla promozione delle libertà individuali, compì una brusca
inversione di rotta dopo la Rivoluzione Francese, che sfociò in aperta
repressione, alla notizia della decapitazione dei regnanti francesi e di
converso si espresse nel sostegno napoletano alla presenza militare britannica
nel mar Mediterraneo. Le misure repressive portarono ad un'insanabile frattura
tra la monarchia e la classe intellettuale; le pene colpirono non solo i
democratici, ma anche riformisti di sicura fede monarchica, che così non
esitarono ad abbracciare la causa repubblicana nel 1799. L'avanzata delle
truppe francesi in Italia cominciò con la campagna del generale Napoleone
Bonaparte, nel 1796. Nel 1798 le navi francesi presero Malta; in precedenza,
nel gennaio 1798, i francesi avevano occupato anche Roma. la decisione di Maria
Carolina, sostenuta dall'ammiraglio britannico Horatio Nelson e
dall'ambasciatore William Hamilton, di aderire alla seconda coalizione
antifrancese e di autorizzare l'intervento militare delle truppe napoletane
nello Stato Pontificio si concluse con una catastrofe. L'esercito napoletano,
capitanato dal generale austriaco Karl Mack e costituito da circa 116.000
uomini, dopo aver inizialmente raggiunto Roma, subì una serie di pesanti
sconfitte e si disgregò nella ritirata. Il Regno fu aperto così all'invasione
dell'armata francese del generale Jean Étienne Championnet.
La Repubblica
napoletana e la riconquista borbonica
Il 22 dicembre 1798 il re Ferdinando IV fuggì a Palermo,
lasciando il governo al marchese di Laino Francesco Pignatelli, col titolo di
vicario generale, e a Napoli la sola debole resistenza popolare dei lazzari
contro i militari d'oltralpe. Dalle rivolte popolari, che intanto si erano
estese fino all'Abruzzo, il Pignatelli però non raccolse una resistenza
organizzata, e l'11 gennaio 1799 firmò l'armistizio di Sparanise, dopo che i
francesi ebbero occupato Capua.
Tredici giorni dopo, il 22 gennaio 1799 a Napoli, i “cosiddetti
patrioti” napoletani proclamarono la nascita di un nuovo Stato, la Repubblica
Napoletana, anticipando il progetto francese d'istituire nel Mezzogiorno
napoletano un governo d'occupazione. Il comandante francese Jean Étienne
Championnet entrato nella capitale approvò le istituzioni dei patrioti e
riconobbe il farmacista Carlo Lauberg capo della repubblica. Il Lauberg quindi,
forte del sostegno francese, in questi anni fondò insieme a Eleonora Pimentel
Fonseca il Monitore Napoletano, celebre giornale di propaganda rivoluzionaria e
repubblicana.
« Siam liberi infine, ed è giunto anche per noi il giorno,
in cui possiam pronunciare i sacri nomi di libertà, e di uguaglianza, ed
annunciare alla Repubblica Madre, come suoi degni figliuoli; a' popoli liberi
d'Italia, e d'Europa, come loro degni confratelli. »
Il nuovo governo inoltre partecipava direttamente
all'esperienza rivoluzionaria francese inviando al direttorio di Parigi la
propria rappresentanza, detta deputazione napoletana[82], e tentò subito delle
innovazioni come l'eversione della feudalità, il progetto giansenista di creare
una chiesa nazionale indipendente dal vescovo di Roma[83] e il progetto
costituzionale della Repubblica realizzato da Mario Pagano che, nonostante
rimase inapplicato, è considerato un importante documento che anticipò le basi
del moderno ordinamento italiano, in particolare quello giudiziario.
Già il 23 gennaio 1799 furono emanate le Istruzioni generali
del Governo provvisorio della Repubblica Napoletana ai Patriotti, una sorta di
primo programma di governo. I progetti politici però non riuscirono a trovare
pratica attuazione nei soli cinque mesi di vita della Repubblica; il 13 giugno
1799 infatti l'armata popolare sanfedista organizzata attorno al cardinale
Fabrizio Ruffo riconquistò il Mezzogiorno, restituendo i territori del regno
alla monarchia borbonica esule a Palermo.[84] Dopo la riconquista borbonica, la
sede della corte ufficialmente restò in Sicilia, ma già nell'estate del 1799 a
Napoli furono istituiti degli organi amministrativi quali la Giunta di Governo,
la Giunta di Stato e la Giunta Ecclesiastica; la Segreteria degli Affari Esteri
era affidata all'Acton che ne gestiva le cariche ancora da Palermo. Nei mesi
seguenti una giunta nominata da Ferdinando cominciò i processi contro i
repubblicani.[85] 124 filogiacobini, tra cui Pagano, la Fonseca, Pasquale
Baffi, Domenico Cirillo, Ignazio Ciaia, Luisa Sanfelice e Michele Granata,
furono condannati a morte.
La reazione regia e la prima restaurazione
Cardinal Fabrizio Ruffo, comandante dei Sanfedisti
Sul finire dell'estate del 1799 gli ex giacobini catturati
ed imprigionati erano 1396. Il governo di Napoli era stato affidato intanto da
Ferdinando IV al cardinale Fabrizio Ruffo, eletto con l'occasione luogotenente
e capitano generale del Regno di Sicilia citeriore, con un titolo che anticipò
ufficiosamente la futura denominazione di Regno delle Due Sicilie che prima
Murat e, dopo il congresso di Vienna, Ferdinando IV, utilizzarono per designare
il regno. La monarchia restaurata, in cerca del sostegno incondizionato del
clero, vistasi minacciata dalle innovazioni giuridiche e amministrative che in
parte gli stessi Borbone avevano portato a Napoli già dal XVIII secolo, fu
caratterizzata da una svolta oscurantista: mise subito in pratica i propri
disegni politici anche con l'eliminazione fisica dei principali esponenti
repubblicani e con l'ostracismo verso chi aveva guadagnato celebrità durante la
repubblica. Allo stesso tempo, per ricondurre entro la nuova politica
conservatrice anche i sacerdoti e i monaci che, su posizioni più o meno
gianseniste, avevano precedentemente aderito alla rivoluzione, il nuovo governo
incaricò, con dispacci e lettere ufficiali, direttamente i vescovi di
controllare tutti gli istituti religiosi delle rispettive diocesi affinché
ovunque fosse rispettata l'ortodossia tridentina[86]. Re Ferdinando si rifugiò
a Palermo restando re di Sicilia.
Il 27 settembre 1799 l'esercito napoletano conquistò Roma
mettendo fine all'esperienza repubblicana rivoluzionaria anche nello Stato
Pontificio, reinsediandovi quindi il principato del Papa. Nel 1801 gli
interventi militari napoletani, nel tentativo di raggiungere la Repubblica
Cisalpina, si spinsero fino a Siena, dove si scontrarono senza successo con le
truppe d'occupazione francesi di Gioacchino Murat. Alla sconfitta delle truppe
borboniche seguì l'armistizio di Foligno, il 18 febbraio 1801, e in seguito la
pace di Firenze tra i sovrani di Napoli e Napoleone; in questi anni furono
varati anche una serie di indulti che permisero a molti giacobini napoletani di
uscire dalle carceri. Con la pace di Amiens invece, stipulata dalle potenze
europee nel 1802, il Mezzogiorno fu provvisoriamente liberate dalle truppe
francesi, inglesi e russe, e la corte borbonica da Palermo tornò ad insediarsi
ufficialmente a Napoli. Due anni più tardi furono riaperte le porte del regno
ai gesuiti, mentre già dal 1805 i francesi tornarono ad occupare il regno,
stanziando in Puglia un presidio militare.
Il periodo
napoleonico
Giuseppe Bonaparte
Il successivo quinquennio vide il Regno seguire una politica
altalenante nei confronti della Francia napoleonica che, per quanto ormai
egemone sul continente, rimase sostanzialmente sulla difensiva sui mari: questa
situazione non consentì al Regno napoletano, strategicamente posizionato nel
Mediterraneo, di mantenere una stretta neutralità nel conflitto a tutto campo
fra francesi e inglesi, i quali a loro volta minacciavano di invadere e
conquistare la Sicilia.
Dopo la vittoria di Austerlitz del 2 dicembre 1805,
Napoleone Bonaparte regolò definitivamente i conti con Napoli: promosse
l'occupazione del napoletano, condotta con successo dal Gouvion-Saint Cyr e dal
Reynier, e dichiarò quindi decaduta la dinastia borbonica, che l'11 aprile
dello stesso anno era entrata nella terza coalizione antifrancese, palesemente
ostile a Napoleone. Ferdinando con la sua corte se ne tornò a Palermo, sotto la
protezione inglese. L'imperatore dei francesi nominò quindi il fratello
Giuseppe Re di Napoli. Intanto nelle province del Mezzogiorno (soprattutto in
Basilicata e Calabria) tornò ad organizzarsi la resistenza antinapoleonica: fra
i vari capitani degli insorti filoborbonici (tra cui vi erano sia militari di
professione che banditi comuni) si distinsero, in Calabria e Terra di Lavoro,
il brigante di Itri Michele Pezza, detto Fra Diavolo, e in Basilicata il
colonnello Alessandro Mandarini di Maratea. La repressione del moto
antifrancese fu affidata, principalmente, ai generali André Massena e Jean
Maximilien Lamarque i quali riuscirono a frenare la ribellione, anche se con
espedienti estremamente crudeli, come accadde ad esempio nel cosiddetto
massacro di Lauria, perpetrato dai soldati di Massena.
Sotto un'amministrazione prevalentemente straniera, composta
dal còrso Cristoforo Saliceti, Andrea Miot e Pier Luigi Roederer, furono
tentate, ancora una volta, e finalmente per buona parte attuate, riforme
radicali quali l'eversione della feudalità e la soppressione degli ordini
regolari; in più furono istituiti l'imposta fondiaria e un nuovo catasto
onciario.
« La feudalità con tutte le sue attribuzioni resta abolita.
Tutte le giurisdizioni sinora baronali, ed i proventi qualunque che vi siano
stati annessi, sono reintegrati alla sovranità, dalla quale saranno
inseparabili »
La lotta alla feudalità fu efficace anche grazie al
contributo di Giuseppe Zurlo e dei giuristi componenti l'apposita Commissione,
che, presieduta da David Winspeare (già al servizio dei Borbone in veste di
mediatore fra la corte di Palermo e le truppe francesi nel Mezzogiorno), ebbe l'incarico
di dirimere le controversie tra municipi e baroni, e alla fine riuscì a
produrre un taglio netto col passato e dunque la nascita della proprietà
borghese anche nel Regno di Napoli, sostenuta poi dallo stesso Gioacchino
Murat. A fianco di una serie di riforme che coivolsero anche il sistema
tributario e giuridico, il nuovo governo istituì il primo sistema di province,
distretti e circondari del regno, ad organizzazione civile, con a capo
rispettivamente un intendente, un sottintendente e un governatore, poi giudice
di pace. Le nuove province erano Teramo, L'Aquila, Chieti, Molise (con
capoluogo Campobasso), Terra di Lavoro (con capoluogo Capua), Capitanata (con
capoluogo Foggia), Benevento, Napoli, Salerno, Potenza, Bari, Lecce, Cosenza,
Catanzaro e Reggio Calabria. Infine l'alienazione dei beni dei monasteri e dei
feudatari attirò a Napoli un cospicuo numero di investitori francesi, gli unici
in grado, insieme ai vecchi nobili locali, di disporre dei capitali necessari
per acquistare terreni e beni immobili. Sull'esempio della Legion d'onore in
Francia, Giuseppe Bonaparte istituì a Napoli l'Ordine Reale delle Due Sicilie
per conferire riconoscimenti ai meriti delle nuove personalità che si
distinguevano nello Stato riformato[88].
Gioacchino Murat
A Giuseppe Bonaparte, nel 1808 destinato a regnare sulla
Spagna, succedette Gioacchino Murat, che fu incoronato da Napoleone il 1º
agosto dello stesso anno, col nome di Gioacchino Napoleone, re delle Due
Sicilie,[89] par la grace de Dieu et par la Constitution de l'Etat, in
ottemperanza allo Statuto di Baiona che fu concesso al regno di Napoli da
Giuseppe Bonaparte. Il nuovo sovrano catturò immediatamente la benevolenza dei
cittadini liberando Capri dall'occupazione inglese, risalente al 1805. Aggregò
poi il distretto di Larino alla provincia di Molise. Fondò, con decreto del 18
novembre 1808, il Corpo degli ingegneri di Ponti e Strade e avviò opere
pubbliche di rilievo non solo a Napoli (il ponte della Sanità, via Posillipo,
nuovi scavi ad Ercolano, il Campo di Marte), ma anche nel resto del Regno:
l'illuminazione pubblica a Reggio di Calabria, il progetto del Borgo Nuovo di
Bari, l'istituzione dell'ospedale San Carlo di Potenza e l'ammodernamento della
viabilità nelle montagne d'Abruzzo. Fu promotore del Codice Napoleone, entrato
in vigore nel regno il 1º gennaio 1809, un nuovo sistema legislativo civile
che, fra le altre cose, consentiva per la prima volta in Italia il divorzio e
il matrimonio civile: il codice suscitò subito polemiche nel clero più
conservatore, che vedeva sottratto alle parrocchie il privilegio della gestione
delle politiche familiari, risalente al 1560. Nel 1812, grazie alle
politiche del Murat, fu impiantata la prima cartiera del regno a sistema di
produzione moderno presso Isola del Liri, nell'edificio del soppresso convento
dei carmelitani, ad opera dell'industriale francese Carlo Antonio Beranger.
La campagna militare del Murat nell'Italia settentrionale.
Nel 1808, il sovrano incaricò il generale Charles Antoine
Manhès di soffocare la recrudescenza del brigantaggio nel Regno, distinguendosi
con metodi talmente feroci da essere soprannominato "Lo Sterminatore"
dai calabresi. Dopo aver domato con poche difficoltà le rivolte nel Cilento
e negli Abruzzi, Manhès pose il suo quartier generale a Potenza, proseguendo
con successo l'attività repressiva nelle restanti zone meridionali, soprattutto
in Basilicata e Calabria, province più vicine alla Sicilia, da cui i briganti
ricevevano supporto dalla corte borbonica in esilio.
Nell'estate del 1810 Murat tentò uno sbarco in Sicilia per
riunire politicamente l'isola al continente; giunse a Scilla il 3 giugno dello
stesso anno e vi restò sino al 5 luglio, quando fu completato un grande
accampamento presso Piale, frazione di Villa San Giovanni, dove il re si
stabilì con la corte, i ministri e le più alte cariche civili e militari. Il 26
settembre poi, constatando impresa difficile la conquista della Sicilia, Murat
dismise l'accampamento di Piale e ripartì per la capitale.
Grazie allo statuto di Baiona, la costituzione con cui Murat
era stato proclamato da Napoleone re delle due Sicilie, il nuovo sovrano si
considerava svincolato dal vassallaggio nei confronti dell'antica gerarchia
francese, rappresentata a Napoli da molti funzionari nominati da Giuseppe
Bonaparte, e forte di questa linea politica, trovò maggior sostegno nei
cittadini napoletani, che videro pure di buon occhio la partecipazione del
Murat a diverse cerimonie religiose e la concessione regia di alcuni titoli
dell'Ordine Reale delle Due Sicilie a vescovi e sacerdoti cattolici. Re
Gioacchino prese parte fino al 1813 alle campagne napoleoniche, ma la crisi
politica del Bonaparte non fu un ostacolo alla sua politica internazionale.
Cercò fino al congresso di Vienna il sostegno delle potenze europee, schierando
le truppe napoletane anche contro la Francia ed il Regno napoleonico d'Italia,
sostenendo invece l'esercito austriaco che scendeva a sud per la conquista
della Val Padana: con l'occasione occupò le Marche, l'Umbria e l'Emilia-Romagna
fino a Modena e Reggio Emilia, bene accolto dalle popolazioni locali.
Conservò più a lungo la corona, ma non si liberò dell'ostilità britannica e
della nuova Francia di Luigi XVIII, inimicizie che impedirono l'invito di una
delegazione napoletana al Congresso, e così ogni sanzione alla occupazione
napoletana di Umbria, Marche e Legazioni, risalenti alla campagna del 1814.
Tale incertezza politica spinse il re ad una mossa azzardata: prese contatto
con Napoleone all'isola d'Elba e si accordò con l'imperatore in esilio, in
vista del tentativo dei Cento giorni. Murat diede inizio alla guerra
austro-napoletana, attaccando gli stati alleati dell'Impero austriaco; a
seguito di questa seconda svolta militare, Murat lanciò il famoso Proclama di
Rimini, un appello all'unione dei popoli italiani, convenzionalmente
considerato l'inizio del Risorgimento. La campagna unitaria però naufragò il 4
maggio 1815, quando gli austriaci lo sconfissero nella battaglia di Tolentino:
col trattato di Casalanza infine, firmato presso Capua il 20 maggio 1815 dai
generali austriaci e murattiani, il regno di Napoli tornava alla corona
borbonica.[98] L'epopea murattiana terminò con l'ultima spedizione navale che
il generale tentò dalla Corsica verso Napoli, dirottata poi verso la Calabria
dove, a Pizzo Calabro, Murat fu catturato e fucilato sul posto.[88][99]
La Restaurazione e il Regno delle Due Sicilie
Ferdinando I re delle Due Sicilie, già Ferdinando IV re di Napoli e
Ferdinando III re di Sicilia
Dopo la Restaurazione, con il ritorno dei Borbone sul trono
di Napoli, i due regni di Napoli e di Sicilia nel dicembre 1816 furono uniti in
un'unica entità statuale, il regno delle Due Sicilie, che ebbe vita fino al
1861, quando, in seguito alla spedizione dei mille e all'intervento militare
del Piemonte, le Due Sicilie furono annesse al nascente Regno d'Italia. Il
nuovo regno conservò il sistema amministrativo napoleonico, secondo una linea
di governo adottata da tutti gli stati restaurati, in cui si iscrisse, a
Napoli, il programma politico borbonico, fortemente conservatore. Il ministero
di Polizia fu affidato ad Antonio Capece Minutolo Principe di Canosa, mentre
quello delle Finanze a Luigi de' Medici, appartenente al ramo mediceo dei
Principi di Ottajano, e quello di Giustizia e degli Affari Ecclesiastici a
Donato Tommasi, principali sostenitori della restaurazione cattolica napoletana.
Per la prima volta inoltre il re, che aveva assunto il titolo di Ferdinando I
delle Due Sicilie, si mostrò disponibile ad accordi politici con la Santa Sede,
fino a promuovere il concordato di Terracina, del 16 febbraio 1818, per cui
venivano definitivamente aboliti i privilegi fiscali e giuridici del clero nel
napoletano, rafforzandone però i diritti patrimoniali e incrementandone i beni.
Lo Stato fu caratterizzato da una politica fortemente confessionale, sostenendo
le missioni popolari dei passionisti e dei gesuiti e i collegi dei barnabiti,
di formazione anti-regalista, e per la prima volta adottando la religione
nazionale come pretesto per sedare le rivolte popolari (moti del '21).
Dalla sua formazione fino all'unità d'Italia il territorio
occupato dal regno di Napoli rimase compreso pressappoco sempre entro gli
stessi confini e l'unità territoriale fu solo debolmente minacciata dal
feudalesimo (Principato di Taranto, Ducato di Sora, Ducato di Bari) e dalle
incursioni dei corsari barbareschi. Occupava grossomodo tutta la parte della
penisola italiana che oggi è conosciuta come Mezzogiorno, dai fiumi Tronto e
Liri, dai monti Simbruini a nord, fino al capo d'Otranto e al capo Spartivento.
La lunga catena appenninica che vi si sviluppa era tradizionalmente divisa in
Appennino abruzzese ai confini con lo Stato Pontificio, Appennino napoletano
dal Molise al Pollino e Appennino calabrese dalla Sila all'Aspromonte. Fra i
fiumi maggiori, il Garigliano e il Volturno: gli unici navigabili.
Appartenevano al regno le isole dell'arcipelago campano, le isole ponziane e
Tremiti, nonché a seconda del periodo storico, la Sicilia, le Egadi, le Lipari,
Pantelleria, Ustica, e lo Stato dei Presidi. Lo Stato era diviso in giustizierati
o province, con a capo un giustiziere, attorno a cui ruotava un sistema di
funzionari che lo aiutavano nell'amministrazione della giustizia e nelle
riscossioni delle entrate tributarie. Ogni città capoluogo dei giustizierati
ospitava un tribunale, un presidio militare e una zecca (non sempre attiva).
Economia
Il regno di Napoli nacque in un periodo molto critico per
l'economia del Mediterraneo. Se i territori che occupava furono in età classica
fra i più ricchi e fiorenti della storia antica, con l'interruzione dell'unità
territoriale dell'ex impero romano, il Mezzogiorno attraversò un periodo di
declino, interrotto con la creazione dello stato unitario normanno nell'Italia
Meridionale. Le crociate contro il mondo arabo prima, che tra Calabria,
Basilicata e Sicilia avevano restaurato un clima di benessere economico, e la
divisione del regno federiciano in Sicilia citeriore e Sicilia ulteriore
consolidarono nelle province napoletane l'assetto amministrativo normanno,
moderno ed efficiente per i tempi, imponendo definitivamente il feudo e il
latifondo come il principale sistema economico e produttivo in grado di
conciliarsi con l'unità dello Stato centrale. È da ricordare che il Regno di
Sicilia, comprendente anche i territori di Napoli, fu uno dei più ricchi
nell'Europa medievale e lo rimase fino al declino della dinastia angioina.
Nonostante la grande perdita di risorse economiche -in
particolare di quelle siciliane (causata dalla "secessione" seguita
ai noti Vespri)- venutasi a creare in seguito alle dispendiose politiche estere
intraprese dagli Angioini, il regno conobbe grazie a questo suo respiro
internazionale varie relazioni mercantili che successivamente consentirono
durante il periodo aragonese una nuova sensibile crescita economica. In particolare
i commerci fiorirono con la penisola iberica, con l'Adriatico, con il Mar del
Nord ed il Baltico grazie a rapporti privilegiati con la lega Anseatica[109].
Gaeta, Napoli, Reggio Calabria e i porti della Puglia furono i più importanti
sbocchi commerciali del regno, che mettevano in comunicazione le province
interne con l'Aragona, la Francia, e, tramite Bari, Trani, Brindisi e Taranto,
con l'oriente, la Terra Santa e i territori di Venezia. Fu così inoltre che la
Puglia divenne un importante centro di approvvigionamento per i mercati europei
di prodotti tipicamente mediterranei come olio e vino, mentre in Calabria, a
Reggio, poteva sopravvivere il mercato e la coltura della seta, introdotta
dagli arabi.
Dall'età aragonese la pastorizia divenne un'altra delle
risorse fondamentali del regno: tra Abruzzo e Capitanata la produzione della
lana grezza destinata ai mercati fiorentini, del merletto e, in Molise,
l'artigianato legato alla lavorazione del ferro (coltelli, campane), divennero
fino al principio dell'età moderna le più importanti industrie inserite nelle
esigenze dei mercati europei. Con lo sviluppo dell'industrializzazione il regno
di Napoli fu coinvolto nei processi di modernizzazione dei sistemi di produzione
e scambio commerciale: si ricorda lo sviluppo dell'industria della carta a Sora
e Venafro (Terra di Lavoro), della seta a Caserta e Reggio Calabria, del
tessile a San Leucio, Salerno, Pagani e Sarno, della siderurgia a Mongiana,
Ferdinandea e Razzona di Cardinale in Calabria, metalmeccanico nel bacino di
Napoli, cantieristico a Napoli e Castellammare di Stabia, della lavorazione del
corallo a Torre del Greco, del sapone a Castellammare di Stabia, Marciano e
Pozzuoli.
Nonostante le difficili condizioni storiche, che a volte
causarono l'esclusione del regno di Napoli dalle principali direttrici dello
sviluppo economico, il porto della capitale e la stessa città di Napoli,
occupando una posizione strategica e centrale nel Mediterraneo, furono per
secoli tra i più vivi e attivi centri economici europei, tanto da attirare
mercanti e banchieri da tutte le principali città europee. Il commercio si
sviluppò anche contro le ostilità dei turchi che con le loro incursioni erano un
pesante inibitore dell'economia navale e del commercio marittimo, fattore
questo che rese necessario un rafforzamento della Marina militare e mercantile
in epoca borbonica.
Religione
Sant'Alfonso Maria de' Liguori, fondatore dei redentoristi.
Una discreta convivenza di costumi, religioni, fedi e
dottrine diverse che altrove erano in guerra, fu invece possibile nei territori
del regno di Napoli, grazie alla posizione centrale che occupa il Mezzogiorno
nel Mediterraneo. Dall'inizio del dominio angioino si impose a Napoli il
cattolicesimo come religione di Stato e dei sovrani, e la chiesa cattolica
trovò il consenso della maggior parte della popolazione. Alla nascita del regno
diverse guerre comportarono la sconfitta e la conseguente interdizione delle
altre confessioni religiose a cui aderivano minoranze e coloni stranieri: Islam
e chiesa ortodossa. In Calabria e in Puglia fino al concilio di Trento e alla
controriforma sopravvisse l'uso del rito greco e del Credo Niceno (simbolo
recitato senza filioque). La riconversione di molte delle diocesi greche alla
tradizione latina inizialmente fu affidata ai benedettini e ai cistercensi che
si sostituirono gradatamente con le loro missioni ai monasteri basiliani, poi
fu incoraggiata e ufficializzata da una serie di disposizioni che seguirono il
concilio di Trento.
Un'altra importante minoranza religiosa era costituita dalle
comunità ebraiche: diffuse nei principali porti della Calabria, della Puglia, e
in alcune città della Terra di Lavoro e della costa campana, furono espulse dal
regno nel 1542 e riammesse poi, con tutti i diritti di cittadinanza, solo sotto
il governo di Carlo III di Spagna, circa due secoli più tardi.
Il controllo dottrinale cattolico fu esercitato
prevalentemente nelle gerarchie nobiliari e nella giurisprudenza e determinò
d'altra parte lo sviluppo di filosofie e etiche eversive nei riguardi della
Chiesa di Roma, laiche e spesso anticurialiste: queste dottrine nacquero su
basi atomistiche e gassendiane ed ebbero diffusione dal XVII secolo (filosofie
portate a Napoli da Tommaso Cornelio)[58] e confluirono poi in una forma
fortemente locale di giansenismo nel XVIII secolo[60]
Particolarmente diffuso fra la popolazione di tutto il regno
era il culto dei santi e dei martiri, invocati spesso come protettori,
taumaturghi e guaritori, nonché la devozione alla Vergine Maria (Concezione,
Annunciazione, del Pozzo, Assunzione). D'altra parte nei territori del regno
sono sorti centri di vocazione, di ecumenismo, e ordini monastici nuovi quali i
teatini, i redentoristi e i celestini.
Lingue e cultura
Nel regno di Napoli rimase ben poco della fioritura
culturale che Federico II incentivò a Palermo, dando, con l'esperienza della
lingua siciliana, dignità letteraria ai dialetti siciliani e calabresi. Con
l'avvento del regno angioino tutte le minoranze linguistiche del Mezzogiorno
furono emarginate da politiche centraliste e l'uso del latino si sostituì
ovunque al greco (il quale però sopravvisse nelle liturgie delle principali
diocesi calabre fino al XVI secolo). La familiarità di parte del clero
meridionale con la tradizione bizantina e le ambizioni degli aristocratici di
dare fondamento storico e culturale alla propria condizione sociale favorirono
poi lo sviluppo in tutto il regno degli studi umanistici, sia nel diritto e
nella retorica latina, sia nei classici greci: la letteratura ellenica fu
importata a Napoli dopo la dissoluzione dell'impero bizantino dai rifugiati
orientali che abbandonavano i Balcani caduti sotto il dominio ottomano. Nel XV
secolo però, benché già con Alfonso I fossero venuti in città molti catalani,
fu adottato da artisti e letterati locali (a partire dal Sannazaro) il
fiorentino come lingua colta neolatina, rimanendo quindi da allora di fatto la
lingua delle grandi personalità fra le quali il Marino, il Vico e il Giannone.
Con il vicereame spagnolo il castigliano fu anche lingua di corte e dei
funzionari statali, lingua che ha lasciato le sue tracce nel volgare di Napoli.
La popolazione nella capitale e nel regno conservò sempre il volgare locale,
dei dialetti meridionali, che raggiunse dignità letteraria prima con Lo cunto
de li cunti del Basile, e quindi con l'uso della lingua napoletana nella poesia
(Cortese), nella musica e nella lirica. Diversi istituti di cultura erano
diffusi in tutto il regno, e consistevano prevalentemente in scuole di
grammatica, retorica, teologia scolastica, aristotelismo o medicina galenica.
L'università e le scuole musicali della capitale competevano in prestigio e
avanguardia con quelle delle principali capitali europee
Rocco Michele Renna
https://it.wikipedia.org/wiki/Regno_di_Napoli
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