il Ponte del brigante Pace di Peppe Sestito

Chiaravalle

il Ponte del brigante Pace...
La banda del brigante Pace, di cui facevano parte anche Ciccone, Moscatiello, Savastano e Gargano, venne catturata l' 11 marzo del 1864 .In origine faceva parte del 27° Reggimento di Fanteria. Quel giorno i militari di pattuglia sulla montagna di Cesima, ai confini con il Molise, sorpresero i briganti e, nello scontro a fuoco che ne seguì, perse la vita, fra gli altri, Antonio Luongo, mentre Maria Capitanio, sua fidanzata, fu arrestata insieme ai pochi superstiti, tra cui altre due donne, una delle quali, Giocondina Marino da Cervinara (Av.) era la moglie del capo-brigante Alessandro Pace. L’altra, Carolina Casale compaesana di Giocondina e vivandiera della banda, era l’ innamorata di Michele Lippiello ed incinta di lui. Di esse solo Maria Capitanio si salvò, perché il padre, già all'indomani dell’arresto della figlia, aveva pagato una cauzione di ben 1500 lire e cominciato, nascostamente, a prezzolare falsi testimoni per dimostrare che era stata rapita e non aveva partecipato volontariamente alle imprese delittuose della banda. Il Tribunale di Isernia credette a quella versione dei fatti e la prosciolse dalle imputazioni ascrittale. Ma ella, sconvolta dal pensiero della morte del suo uomo, ingerendo dei frammenti di vetro, si tolse la vita. Evidentemente, a quel punto, al capo brigante non rimase altra alternativa che cambiare aria e giungere sui nostri monti dove c’erano si altre bande brigantesche in cui avrebbe rivestito un ruolo importante, ma dove ,forse, si era convinto, che non ci avrebbe rimesso la pelle. Ma si sbagliava. Essendo Chiaravalle Capoluogo di Mandamento di un vasto comprensorio i reggenti del governo e gli amministratori della giustizia locale s’inventarono una magagna per eliminare per sempre il fenomeno del brigantaggio, almeno nei paraggi. Due potenti personaggi paesani fecero stampare un proclama fasullo in forza del quale tutti i briganti sarebbero stati perdonati delle loro malefatte e resi liberi da ogni persecuzione a patto però di consegnare le armi ed arrendersi apertamente confluendo tutti in un luogo prestabilito. Il posto scelto pare sia stato l’androne del palazzo Staglianò sulla Gran Via. Molti briganti, compreso il Pace e un altro capo banda, decisero di recarsi all’appuntamento contenti di averla fatta franca. Il banditore girava il paese annunciando l’evento e facendo capire che la parola data sarebbe stata rispettata come parola di re. Nel giorno stabilito i briganti scesero dalla montagna ma non fecero tanta paura come quando entravano nelle bettole a far baldoria. Coi muli carichi di sacchi e valige, si accomodarono sul muricciolo della gran via quasi difronte al palazzo signorile. Alcuni di essi e i due Capi furono fatti entrare nel cortile interno dove, dopo la lettura del falso proclama e le rassicurazioni sulla libertà, furono invitati a consegnare le armi e a consumare un lauto pranzo e abbondanti libagioni. Alla fine del pranzo, al segnale convenuto, cioè un tovagliolino bianco sulla spalla di un servo che si affacciava ad una delle finestre, dalle feritoie e dai finestrali del palazzotto diversi tiratori scelti della guardia urbana, debitamente appostati, uscirono allo scoperto e fecero fuoco. E i briganti, senza le armi atte a difendersi, furono tutti uccisi, feriti in modo grave, o arrestati e poi giustiziati. I due capi vennero pugnalati mentre erano ancora seduti al tavolo. Uno, colpito mortalmente, ci rimase secco. L’altro, il Pace, se bene ferito, riuscì a fuggire, cercando di attraversare il ponticello di legno che gli avrebbe permesso di trovare rifugio nel folto bosco dei Cerzulli. Giunto sul ponte, però, fu sparato da un urbano che gli correva dietro; il colpo e la conseguente caduta, fecero esplodere la borraccia della polvere da sparo che portava a tracolla, il che gli causò delle ustioni. Con le ferite che gli bruciavano tentò di raggiungere una piccola sorgente campestre che sgorgava proprio alla fine del ponte…ma non ce la fece e si accasciò. Si distese in attesa della morte. Ad una donna, che si trovava lì perché era andata a prendere acqua, chiese di rinfrescargli la bocca e le ferite in cambio dei bottoni d’oro della sua giuba che, sicuramente, aveva rubato chissà dove, a chissà chi… ma quella, spaventata dalla sua fama e timorosa per le ritorsioni dei giustizieri, lo evitò come la peste e scappò via a gambe levate. Pochi minuti dopo, il brigante Pace morì. La notizia della sua morte accrebbe il panico tra i pochi briganti ancora vivi rimasti fuori dal palazzo. Alcuni cercarono riparo in casa di alcuni signori vicini che li fecero entrare coi loro tesori offerti in cambio del favoreggiamento. Ma invece di aver garantita la salvezza furono derubati e cacciati fuori in malo modo. E là furono uccisi dalle guardie sempre in agguato. Quando i briganti furono tutti morti vennero loro tagliate le teste. Le donne le misero nelle ceste e le portarono parte al piano della Brunda, a ridosso dell’attuale campo sportivo, dove vennero appese ai castagni; e parte al piano del Gaffaro dove vennero infisse su dei pali eretti appositamente e li vi rimasero finché non furono scarnificate. Poi furono gettate via. Dopo l’eccidio, quei macabri moniti e l’estinzione dei Capi, di briganti veri, in giro nella zona, non se ne videro più. Rimase però il ricordo del brigante Pace e quel ponte e la fontanella presero il nome da lui: di Pace, appunto. In seguito il ponte fu demolito per favorire la costruzione della strada per San Vito e dell’arco sul condotto delle acque fognati. Ben presto anche la fontanella e lo spiazzo antistante, un tempo usato per lavorare la seta furono abbandonati. Ma ancora oggi la zona tra le ultime case di via Razza, in prossimità dei Cerzulli, è detta dagli abitanti ”ù puonti e' Paci“, cioè il Ponte di Pace.
 Peppe Sestito
Fonti:
"Claravallis" di M.D. Gullì a cura dell'Associazione Tempo Nuovo del 2010

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