San Leucio: l’utopia di un RE

San Leucio:
 l’utopia di un re tra gestione degli spazi e contraddizione dei tempi


Il primo insediamento di San Leucio risale al 1773, quando Ferdinando IV, re di Napoli,
S.M. Ferdinando I ex IV
 resosi conto che ‘‘le delizie di Caserta’’ e della magnifica reggia, voluta dal padre ed edificata dal Vanvitelli, troppo somigliavano al rumore della città di Napoli e della sua vociferante Corte, decise (come egli stesso ricorderà nel suo opuscolo sulla “Origine della popolazione di S. Leucio”, pubblicato nel 1789) di scegliere, nella ‘‘villa medesima  un luogo più separato, quasi un romitorio’’ che più lo predisponesse ‘‘alla meditazione ed al riposo dello spirito’’ . A una siffatta esigenza gli parve senz’altro corrispondere il comprensorio di San Leucio, che era entrato, con tutto il feudo casertano, a far parte della proprietà della Corona in forza dell’acquisto fatto nel 1750 dall’augusto genitore Carlo III unitamente alla consorte, la regina Amalia, dalle mani dell’antico feudatario, il conte Michelangelo Gaetani d’Acquaviva. Immediatamente confinante con il parco della reggia vanvitelliana, dal cui fondo vi si accedeva, quell’area già ospitava l’antico casino del Belvedere, edificato dagli Acquaviva secondo la moda delle nobili dimore di campagna di tradizione rinascimentale, le quali dovevano, tra rovine più o meno autentiche, boschetti e rigagnoli, unire alla bellezza delle fabbriche l’amenità della natura, cosı` da rendere possibile ai nobili abitatori il non meno nobile otium di tradizione classica.
Prima destinazione del sito fu per Ferdinando quella di riserva di caccia (a questo fine si provvide anche a murare il bosco perché´   la cacciagione non potesse sfuggire). Per scopi appunto venatori re Ferdinando fece dunque costruire un ulteriore apposito casino, adibito (anche) a dimora rustica sua e della regina Maria Carolina d’Austria. L’edificio cessò, tuttavia, di essere usato come abitazione, allorché´ nel 1778 ebbe a morire l’erede al trono, il principino Carlo Tito di appena tre   anni.
A partire da quella data, abbandonato lo scenario di ricordi cosı` tristi, si provvide al restauro, quasi alla riedificazione (tanto l’intervento fu radicale) dell’edificio degli Acquaviva: opera, questa, affidata prima all’architetto Domenico Brunelli (nell’originale: Francesco Gollecini) e poi a Giovanni Patturelli perché´ divenisse nuova dimora del sovrano che, nonostante la disgrazia, non cessò di amare quei luoghi. Lo stesso edificio aveva già subito un parziale precedente riadattamento allorché´ l’architetto Francesco Gollecini nel 1776 aveva trasformato il sontuoso salone delle feste del casino degli Acquaviva in Chiesa Parrocchiale intitolata a S.  Ferdinando re, facendovi sistemare due lapidi latine, una a memoria dell’antica edicola di S. Leucio, l’altra dedicatoria della Chiesa a S. Ferdi Nando. Il Sovrano fece anche apporre, sull’altare maggiore e ai suoi lati, cinque quadri, opera tutti di Carlo Brunelli.
Ferdinando stesso riferisce di come l’originaria popolazione di cinque o sei individui da lui insediati ‘‘per la custodia del   Bosco, e per aver cura del casinetto, delle vigne, piantagioni, e territori in esso recinto incorporati’’ si sia progressivamente accresciuta fino a raggiungere il numero di 134, ‘‘attesa la favorevole prolificazione prodotta dalla bontà dell’aria, e dalla tranquillità e pace domestica, in cui viveano’’. Bontà dell’aria dunque davvero straordinaria se, ben presto, gli abitanti, dall’originaria mezza dozzina (ma si erano aggregate altre famiglie) avevano ampiamente superato il centinaio, e nel 1759, allorché´ il sovrano istituì` formalmente la colonia, promulgandone altresì` le leggi, erano divenuti addirittura 214! Fu cosı` che Ferdinando, secondo quanto egli stesso racconta, pensò di stabilire nel suo antico casinetto, onde evitare la crescita di una ‘‘pericolosa società di scostumati’’, ‘‘una casa di educazione pe’ figliuoli dell’uno e dell’altro sesso ’’. L’origine della colonia si lega dunque all’idea di una scuola: non sembra inutile qui sottolinearlo, ora che il sito rinasce soprattutto come insediamento formativo universitario!
Il regale racconto prosegue con la riflessione che la popolazione leuciana, benché´ ‘‘ben educata’’, non avrebbe potuto, una volta giunta a maggiore età, far altro che rimanere oziosa, ovvero abbandonare il sito e, con esso, il sovrano che tanto si era prodigato per loro: non sarebbe stato in effetti possibile assegnarne al servizio reale che un numero esiguo. Di qui l’idea di “ridurre quella popolazione’’ in crescente aumento (evidentemente sempre per la favorevole prolificazione prodotta dalla bontà dell’aria) come ‘‘utile allo stato, utile alle famiglie, ed utile finalmente ad ogni individuo di esse in particolare’’. Nasce cosı`, nel segno dichiarato di una paterna sollecitudine, ma altresì` di un tre volte ribadito principio di utilità, e quindi di economia, l’idea presto realizzata di una ‘‘manifatturia di sete grezze, e lavorate di diverse specie fin ora qui poco o malamente conosciute’’. All’idea presto fece seguito l’attuazione, provvedendosi ad impiantare una manifattura comprendente tutte le fasi della lavorazione della seta, dall’allevamento dei bachi e produzione di bozzoli (attività questa affidata in parte ai contadini di Terra di lavoro che ricevevano dalla manifattura i semi-bachi) fino alle varie fasi della filatura della seta greggia, della torcitura, della tessitura in un’ampia varietà di pregiate trame e, infine, della tintura. A questo fine non si lesinarono dalla borsa reale mezzi ne´ per l’acquisto e la realizzazione di macchine, ne´ per fornire loro energia (si prolungò apposta il grandioso acquedotto carolino che già aveva prodotto quella vera meraviglia architettonica di classica semplicità vanvitelliana che sono i Ponti della Valle). Ne´ si lesinò per procacciare – almeno all’inizio – la migliore manodopera specializzata, sia pure proveniente da altri Regni (Piemonte, Lombardia, Francia). La fabbrica poté` cosı`, ben presto, giungere in produzione riuscendo anche a formare al proprio interno un ceto operaio specializzato che lavorava in parte nella manifattura e, in parte, a domicilio degli operai producendo, come è possibile verificare dai numerosi manufatti tuttora conservati, materiale serico di altissima qualità.

Naturalmente occorse un sempre maggiore sviluppo edilizio della colonia con la costruzione della filanda, degli incannatori, dei filatori (locali tecnici, ai quali tutti si accedeva – è da notare – direttamente dall’appartamento del Re) e poi, ancora, di due lunghi casamenti a schiera non dissimili da quelli progettati per Pienza, utopia urbana toscana di un grande Pontefice umanista, destinati ad abitazione delle famiglie Leuciane. Essi furono detti quartiere S. Carlo e quartiere
S. Ferdinando.
E`   noto come il Borbone si spingesse a vagheggiare la realizzazione nella zona, e precisamente ‘‘nella campagna sottoposta al casino Reale’’, di una ‘‘intera ridente e simmetrica città ’’, chiamata, guarda caso, Ferdinandopoli. La città, progettata, a quanto pare insieme, dal sovrano stesso e dall’architetto Gollecini, avrebbe dovuto svilupparsi attorno ad una grande piazza circolare del diametro di circa 680 palmi (circa 160 metri) il cui centro era a ‘‘perfetto intraguardo’’ con il centro del casino Reale, in un punto dove avrebbe dovuto collocarsi, come effettivamente fu collocata, una grande statua del sovrano. Il mito borbonico, fattosi illuministico, del Re Sole era tutt’altro che tramontato. Dal centro della piazza avrebbero dovuto dipartirsi a guisa di raggi tutte le strade di Ferdinandopoli e con lo stesso centro venivano circoscritte le altre vie, che le traversavano in linee di circonferenze. Nella piazza, e precisamente in faccia alla posizione del Real Casino (che si sarebbe tuttavia trovato più in alto), avrebbe dovuto sorgere la Cattedrale di cui fu realizzato altresì` il modello in legno. Di essa si approntò anche la prima pietra, da porre nelle fondamenta insieme alle monete del Regno, con scolpita la data del settembre 1798. Le truppe francesi prima, la Repubblica Napoletana dopo, non permisero che il progetto venisse portato a termine. La grande storia bussava alle porte dell’isola leuciana e non cesserà di farvi sentire i suoi effetti.
Se Ferdinandopoli non venne mai realizzata, tuttavia nel 1789 erano cosa compiuta tanto la manifattura quanto la Colonia, sicché´ il re in persona potette accingersi a scrivere a suo nome il già ricordato opuscolo sulla Origine della Popolazione di S. Leucio e suoi progressi fino al giorno d’oggi colle leggi corrispondenti al buon governo di essa.
https://archive.org/details/originedellapopo00ferd
 La stampa dell’opera fu commessa originariamente (in stretta segretezza) in soli 150 esemplari iniziali alla stamperia reale. Ma qual è  il senso da dare oggi alle grandi fabbriche, belle di semplice calce e pietra lavica, sorte nella campagna casertana e quale quello da attribuire al complesso di leggi con cui il sovrano volle regolarne la vita, aggiungendo ben presto ad esse un catechismo ragionato dei Doveri verso Dio, verso ‹se` , verso gli altri, verso il Re, verso lo Stato per uso delle Scuole Normali di San Leucio, un Regolamento in senso della fabbrica e perfino un Orario per il tempo della preghiera, Messa ed esposizione del Santissimo, nonché´ alcune preghiere appositamente dettate . In tali documenti sono minutamente indicati non solo gli orari delle funzioni religiose ma anche quelli in cui, nei diversi mesi dell’anno, ‘‘tutti andranno a pranzo ’’ o ‘‘tutti devono porsi al lavoro ’’, ancora in cui ‘‘le figliuole anderanno all’Incannatoio, o, ancora, se dovesse camminarsi isolatamente o a due e con quale passo, beninteso senza fermarsi nei corridoi’’ e quant’altro.
Che cosa fu dunque veramente il monumento complessivo che continua a guardarci ed incuriosirci? Fu un formidabile evento di modernizzazione rispetto agli equilibri sociali economici e politici del Regno, ponendosi il problema della formazione e della centralità della classe manifatturiera, fino ad allora marginale e trascurato, e indicando nel concetto di fabbrica modernamente organizzata la nuova frontiera dell’economia per la Capitale e per il Regno stesso, stabilendo, infine, delle regole di uguaglianza, di autogoverno (l’elezione dei seniori) e delle modalità organizzative all’interno della Colonia assolutamente inusitate per il resto dei regnicoli.
(Il codice leuciano) http://www.sanleucionline.it/storia/codice3-corpo.htm
 Costituì` una formidabile compresenza di antico e moderno, di spirito di uguaglianza, di bellezza e amenità dei luoghi naturali e di uso razionale ed economico degli stessi, rispondendo in maniera propria ad una domanda che ritornerà spesso anche nella cultura moderna: Può mai una fabbrica essere bella? E infatti S. Leucio fu un insieme di linee rette, proprie di un incombente razionalismo che non accetta le tortuose vie del barocco, ma anche di linee curve. Fu, ancora, una singolare sommatoria di razionalità e di sentimenti paterni che non escludevano gli altri, compreso quello d’amore: il matrimonio nei codici leuciani può aversi quando ‘‘un giovane avrà inclinazione per una giovane e nella scelta non si mischino punto i Genitori, ma sia libera de’ giovini’’. Si perviene alla suprema contraddizione di una fabbrica che non si distingue dalla reale abitazione, ne´ nel suo aspetto esterno (eppure quanto sforzo avevano posto i sovrani assoluti nel distinguere le loro proprie dimore nello spazio e nell’aspetto da ogni altra costruzione), e neppure al suo interno, giacche´, come abbiamo visto, gli appartamenti del sovrano erano direttamente intercomunicanti con le officine della fabbrica. Uno strano, per molti contraddittorio, luogo abitato da un Re e dai suoi operai.
Un autorevole storico della città ha definito San Leucio ‘‘un’utopia realizzata’’. Ma cos’è un’utopia e che significa la sua realizzazione?
Secondo Mannheim ogni epoca produce ed accumula (nei gruppi sociali diversamente situati) quelle idee e quei valori in cui si condensano, per cosı` dire, le tendenze, non ancora realizzate e soddisfatte, che rappresentano i bisogni di ciascuna età. Codesti elementi intellettuali costituiscono col tempo materiale esplosivo per far saltare in aria l’ordine esistente. La realtà presente dà dunque origine alle utopie che, a loro volta, ne rompono i confini per lasciarla quindi libera di svilupparsi nella direzione dell’ordine ‘‘successivo’’. La definizione di Mannheim dell’utopia non come qualcosa di irrealizzabile ma, al contrario, come di un insieme di idee e di aspirazioni che, mentre ‘‘impedisce alla realtà esistente di tramutarsi in assoluta’’, la concepisce, viceversa, come una delle possibili utopie, e che si caratterizza proprio per la totale o parziale realizzabilità dell’utopia, ben può accordarsi con la storia di S. Leucio. In effetti la concezione sociologica dell’utopia enunciata da Mannheim, cosı` fortemente intrisa di dialettica, in questi termini ne configura i caratteri:
 a) ogni utopia è posta non in relazione ad un pensiero statico ma ad un ordine di vita operante, il topos, ovvero la topi, in relazione cioè a una struttura economica politica e di pensiero concretamente determinata;
b) l’utopia manifesta sempre una sua capacità di tradursi, più o meno integralmente, e più   o meno rapidamente, in realtà: è, insomma, secondo la definizione di Lamartine, una ‘‘realtà` prematura’’, ma che poi in qualche misura diventa realtà;
c) l’utopia è propria dei gruppi sociali che si accingono ad emergere.

In sostanza San Leucio rappresenta un modus vivendi che oggi definiremmo socialista, nato prima della rivoluzione francese da cui il socialismo prende spunti, Un Re che ama il suo popolo fino a voler costruire per se e per il suo popolo un mondo perfetto, una struttura sociale anticipatoria dei tempi moderni, e questo, secondo gli storici moderni filo massonici sarebbe un re Dispotico ed autoritario a differenza delle democrazie moderne che tolgono la dignità al popolo, non riuscendo a garantirgli l’indispensabile

Rocco Michele Renna

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