LA VALUTA BORBONICA SOTTO FERDINANDO I: LE MONETE COME TESTIMONIANZA STORICA DI UN’EPOCA di Raffaele Lula


LA VALUTA BORBONICA SOTTO FERDINANDO I:
LE MONETE COME TESTIMONIANZA STORICA DI UN’EPOCA


Raffaele Iula



Cenni storici

«Tutti i nostri reali dominj al di qua e al di là del Faro costituiranno il regno delle Due Sicilie». Con queste parole, ratificate ufficialmente nella Legge fondamentale del Regno delle Due Sicilie  n° 565 - Art.1 del 1816, si sanciva la nascita di una nuova entità statale nell’Italia meridionale.
Erroneamente si ritiene che l’unificazione delle istituzioni napoletane con quelle siciliane sia avvenuta per volontà del Congresso di Vienna. In realtà fu lo stesso Ferdinando IV di Napoli (re in Sicilia col nome di Ferdinando III) a volere tale unificazione istituzionale, temendo l’intervento inglese che, col pretesto di mantenere la pace e la stabilità territoriale sancite nel Congresso di Vienna, avrebbe sottratto il governo della Sicilia ai Borbone. I siciliani, orgogliosi della propria indipendenza, avendola definitivamente perduta, non erano affatto soddisfatti del nuovo assetto politico; di contro gli assolutisti napoletani vedevano di buon occhio quest’unificazione nella quale la Sicilia veniva declassata da Stato a semplice provincia del Regno di Napoli.
Al di là delle motivazioni delle aristocrazie, il sovrano si era reso conto che l’intromissione della potenza inglese era divenuta ormai opprimente e indesiderata e, se non si sarebbe verificato alcun cambiamento, la Sicilia sarebbe stata trasformata in un protettorato britannico. Per sancire questi mutamenti e per renderli stabili e duraturi, Ferdinando di Borbone ridistribuì nuovamente i più alti titoli ai suoi discendenti e parenti.
Rientrato a Napoli ed effettuati i dovuti accorgimenti sopraindicati, Ferdinando poté assumere ufficialmente il nuovo titolo di RE DEL REGNO
DELLE DUE SICILIE, DI GERUSALEMME, INFANTE DI SPAGNA,
DUCA DI PARMA, PIACENZA, CASTRO, GRAN PRINCIPIE EREDI-
TARIO DI TOSCANA, mutando il proprio numerale da IV in Napoli e III in
Sicilia, a I.
Si venne così a formare quello Stato tanto amato dal popolo e visto con ambiguità da quei ceti culturali principalmente di stampo liberale che guardavano con favore agli ormai assaporati ideali della Rivoluzione Francese.





La cultura nel Regno non veniva monopolizzata o censurata: sorgevano numerosi salotti letterari, i più famosi dei quali furono quelli di Palazzo Berio e dell’Arcivescovo di Taranto, dove la cultura si diffondeva con vari mezzi: libri, collezioni antiquarie, raccolte ecc. e vi si riunivano alcune tra le menti più brillanti del tempo (si pensi a Stendhal o Rossini).
D’altra parte, però, il Re si circondava di persone meno colte, poiché in gioventù egli non aveva mai voluto studiare molto e si sentiva imbarazzato se messo a confronto con gli uomini di cultura. Per questo il sovrano amava il popolo e non i ceti medio-alti della società, e la popolazione ricambiava questo sentimento con grandi plausi e ovazioni che culminarono il 19 giugno di quello stesso anno.
Quando il Regno di Napoli era in mano francese, Ferdinando ripiegò in Sicilia sotto la protezione degli Inglesi. In questo periodo si trovava in Sicilia Lord Bentinck che, sbarcato per reclutare un’armata da inviare in Spagna, si era trovato immischiato nella risoluzione di una difficile crisi politica che coinvolgeva i territori borbonici attaccati dai francesi. Così, Lord Bentinck pensò di risolvere questa crisi consigliando al Re di concedere una costituzione alla Sicilia simile a quella britannica. Dopo le continue richieste del rinnovato Parlamento di Sicilia, che appoggiava pienamente l’idea di Bentinck, Ferdinando fu costretto a concedere la sua prima costituzione che verrà automaticamente abolita col suo ritorno a Napoli nel 1816.
Con la restaurazione del Regno di Napoli, Gioacchino Murat, successore di Giuseppe Bonaparte sul trono partenopeo, fuggì dalla città e si rifugiò in Corsica da cui più tardi partì per mettersi alla testa di una fallimentare spedizione sbarcata in Calabria coll’obiettivo di riconquistare il regno perduto. Intanto Bentinck era stato allontanato e, colla definitiva sconfitta di Murat, l’Italia meridionale si trovava nuovamente nelle mani dei Borbone.
Le minacce non erano, però, terminate: i nuovi nemici, questa volta, non provenivano dall’esterno, ma si erano sviluppati e accresciuti nel regno stesso: i cosiddetti carbonari o settari. La carboneria, colle sue idee rivoluzionarie, si diffuse molto velocemente in Italia, riuscendo a contrastare anche la massoneria. Gli ideali carbonari avevano attecchito soprattutto tra gli ufficiali e i soldati del Regio Esercito, così, comandati dal generale Pepe, i Carbonari vennero allo scoperto con frequenti e violente proteste, mettendo alle strette lo stesso Ferdinando che si vide costretto per la seconda volta a firmare una costituzione da lui non desiderata e approvare la nascita di un nuovo Parlamento. Pepe era la figura di spicco tra i carbonari che presero parte alla rivolta e fu solo grazie all’intervento militare di forze austro-russe che Pepe fu sconfitto il 7 marzo a Rieti e fu costretto a rifugiarsi in Francia. Difatti, fu la Santa Alleanza a decidere di far intervenire il suo braccio armato, ossia l’Austria, poiché Ferdinando I fu convocato presso Lubiana per un Congresso (1820) e, in quest’occasione, il sovrano si presentò come vittima dei carbonari, accettando l’aiuto delle potenze straniere. In realtà, Ferdinando, temendo per la propria incolumità, aveva scritto segretamente al Principe di Mettenrich, affermando di voler lasciare il Regno per poterlo riconquistare di seguito con l’ausilio delle truppe austriache.
Ristabilito l’ordine a Napoli e in Sicilia, Ferdinando ritornò sul suo trono e applicò dure misure repressive nei confronti di tutti i partecipanti alla rivoluzionaria esperienza carbonara. La costituzione fu abolita e gli austriaci, approfittando del momento, si impegnarono a presidiare militarmente la Sicilia come avevano fatto in precedenza gli Inglesi. Il Parlamento, timoroso per il verso che gli eventi stavano prendendo, si tutelò giurando fedeltà al Re e facendo a lui atto di sottomissione.
Dopo aver richiamato i suoi vecchi Ministri (fu costretto a farlo a causa della pressione degli Alleati), Ferdinando fu contento di dedicarsi nuovamente alla sua passione: la caccia. Trascorse giorni felici nelle sue tenute, vantandosi, alla fine di ogni giornata, della numerosa selvaggina che riusciva a cacciare. Purtroppo il sovrano dovette interrompere i suoi amati svaghi per dedicarsi ai noiosi affari di stato: gli austriaci, grazie alla loro ultima azione in terra borbonica, avevano notevolmente accresciuto il loro potere e la loro influenza sul Re che, ora, sperava di liberarsene quanto prima. In ottobre un Ferdinando ormai settantenne – all’epoca a settant’anni si era già considerati vecchi - abbandonò le sue tenute invitato ad un Congresso presso Verona. Il Re, nonostante fosse stanco dei continui spostamenti, vi si recò con la speranza di riuscire a ridurre il potere austriaco nel suo regno. Il Congresso si svolse abbastanza velocemente: Ferdinando riuscì a far ridurre il potere delle truppe austriache, che, tuttavia, lasciarono un presidio per la “pubblica sicurezza”.
Il vero problema era la Spagna, insorta contro Ferdinando VII. Si decise, quindi, di far intervenire i francesi, che, dopo aver attraversato i Pirenei, restaurarono il legittimo sovrano sul suo trono e attuarono una violenta repressione nei confronti dei costituzionalisti. Conclusosi il Congresso di Verona si spostò a Vienna, dove partecipò alla vita di corte come ospite di riguardo, assistendo a diverse rappresentazioni teatrali e prendendo parte ad alcuni ricevimenti: contemporaneamente dedicò molto tempo anche a funzioni religiose, visitando oltretutto la sepoltura, nella Cripta Imperiale, della sua prima moglie, Maria Carolina d’Austria, deceduta nel 1814.
Terminato il suo viaggio nella capitale dell’Impero austriaco, Ferdinando I ritornò a Napoli nel 1823, contento di vedere che, intanto, la sua famiglia si era notevolmente ingrandita, grazie alla nascita di nuovi nipoti. Malgrado queste gioie familiari, il sovrano avvertiva la mancanza dei suoi vecchi e fedeli amici che avevano ricoperto le più alte cariche dello Stato ed ora erano quasi tutti scomparsi. Per questo Ferdinando iniziò a pensare alla sua fine, cadendo in uno stato di ipocondria da cui uscì solo grazie alla caccia. Intanto i suoi Ministri si davano da fare per ridurre al minimo le forze austriache che avevano letteralmente occupato il Paese.
Dopo una battuta di caccia, il 2 gennaio 1825, Sua Maestà rimase in casa a causa di un lieve raffreddore che andò aggravandosi: la sera stessa le sue condizioni si resero preoccupanti; rifiutò un salasso che i medici volevano praticargli. Il mattino seguente, alle ore otto, il maggiordomo, entrando nella camera del sovrano, trovò il re ormai privo di vita a causa di un colpo apoplettico, lo stesso che aveva condotto alla morte la sua prima consorte Maria Carolina.
Gli successe suo figlio, il Duca di Calabria, a cui il defunto padre aveva fatto promettere per iscritto di lasciare, alla sua morte, una rendita mensile di quattromilacinquecento ducati alla vedova nonché moglie morganatica del sovrano, Lucia Migliaccio Duchessa di Floridia.

La moneta.

Con la nascita del Regno delle Due Sicilie, il suo primo sovrano, Ferdinando I, si occupò di stabilizzare anzitutto il suo potere e di cancellare le tracce del breve passato rivoluzionario del napoletano, in linea con la politica di restaurazione del Congresso di Vienna. Il Re provvide, quindi, a riaffermare e modificare nello stesso tempo il sistema monetario. Infatti, coi decreti n° 1125 e 1170, rispettivamente in Napoli, 23 febbraio 1818 e in Portici, 13 aprile 1818, Ferdinando I, «secondo i sani principj di pubblica economia» sanciva che «le monete estere di oro e di argento non sieno che preziosi metalli, la cui valutazione dipende dal cambio, o sia da’ rapporti di credito e debito delle nostre piazze». E ancora: «le dette tariffe pubblicate in tempo dell’occupazione militare, per quanto riguardano le monete di oro straniere […], non saranno più in vigore». Lo stesso accadde alle monete d’argento con il secondo decreto (n° 1170). Quindi, con le suddette leggi, Ferdinando mirava a togliere dalla circolazione le monete coniate durante il decennio francese, prima sotto Giuseppe Bonaparte, poi sotto Gioacchino Murat.
Dato che questo monarca regnò per molto tempo, altrettanto numerose sono le emissioni monetarie, lasciando ampio spazio anche ad ammirevoli rarità. Pertanto, per comodità, si usa suddividere convenzionalmente la sua monetazione in tre periodi, influenzati dagli eventi storici che coinvolsero il Regno. Trattiamone a grandi linee: il primo periodo va dal 1759 al 1799 e comprende quella fase storico-economica caratterizzata da una benefica assenza di guerre con la conseguente fioritura delle attività commerciali e finanziarie. Continuò la monetazione aurea principiata da Carlo di Borbone e di questo periodo si possono trovare esemplari da sei, quattro e due ducati d’oro da 21 ¾ carati. I pezzi d’oro coniati furono tantissimi. Sono interessanti da notare le effigi del Re sui diritti (D/) delle monete in questione: cambiano a seconda dell’età del sovrano e comprendono un arco di tempo che va dalla fanciullezza fino all’età matura. Per quanto riguarda l’argento abbiamo, invece, una alquanto rara mezza piastra datata 1760 e definita “pupillare” perché all’epoca Ferdinando aveva solo nove anni ed era asceso al trono di Napoli e Sicilia da appena un anno.
Data la sua minore età fu affiancato da un Consiglio di Reggenza, poi trasformato in Consiglio di Stato, sotto la direzione del Tanucci. Vi sono poi altre piastre col busto di un giovane Ferdinando e più interessanti sono quelle commemorative di cui ne segnaliamo tre tipi: una, coniata in occasione della nascita della primogenita Maria Teresa, presenta al diritto i busti accollati dei sovrani con la legenda FERDINANDVS  REX  MARIA CAROLINA REGINA  e al rovescio (R/) una figura femminile seduta a sinistra con un bambino in grembo. Sullo sfondo si intravedono la personificazione del Sebeto e il Vesuvio, mentre sulla destra vi è un vascello  alla fonda; il tutto sormontato dal motto  FECVNDITAS (Fig.1).
Fig. 2 (ingr. 1,5:1 - da “Numismatica Ars Classica NAC AG” - n 57 del 18 dicembre 2010).

Furono, poi, coniate altre due piastre nel 1791 per commemorare il viaggio dei sovrani alla Corte austriaca dove diedero in mogli le loro figlie agli Arciduchi d’Austria. Al diritto della prima troviamo sempre i busti accollati di Ferdinando e Maria Carolina con la legenda FERDINANDVS  IV  ET MARIA  CAROLINA  e al rovescio il Sebeto e Partenope che sacrificano su un’ara con il Vesuvio sullo sfondo; in alto il motto PRO  FAVSTO 
P.P.  REDITV  V.S. (Fig.2)
La seconda, invece, è meno rara della precedente e presenta i consueti busti regi accollati e FERDINANDVS  IV  ET  MARIA  CAROLINA VNDIQ. FELICES  e al rovescio il globo terrestre illuminato dal sole, il tutto sormontato da una fascia zodiacale colla dicitura  SOLI  REDVCI. (Fig.3) 
Queste piastre furono coniate al titolo di 833/1000, lo stesso titolo adottato per tutta la monetazione argentea posteriore al 1791.
 
Fig.3 (ingr. 1,5:1 - da “Numismatica Ars Classica NAC AG” – n. 57 del 18 dicembre 2010).

Nel 1799 Ferdinando iniziò la coniazione delle piastre col millesimo, riprese, poi, nel secondo periodo (1799-1806) che inizia proprio con una emissione datata 1799. Dal punto di vista monetario bisogna segnalare le piastre del 1799 – 1800 – 1802 per culminare con la rarissima piastra del 1804.
Di grande interesse è sottolineare che nella monetazione in rame di questo periodo appartiene forse la moneta borbonica più rara di tutta la serie: un grano di Ferdinando IV della zecca di Napoli con data 1800. Questi esemplari (ne sono conosciuti solamente tre) si presentano tutti in bassa conservazione e hanno al diritto il busto verso destra del re con la legenda  FERDINAN  IV  SICILIAR  REX, e al rovescio entro una corona d’alloro  VN GRANO  CAVALLI  12  su quattro righe; ai lati R. C. (ossia, Regia Corte, poiché il maestro di zecca mancava) e la data. Infine troviamo la terza parte del regno di Ferdinando (che va dal 1816 al 1825) in cui le piastre d’argento raggiunsero gradi di bellezza artistica notevoli.
Con la nascita del Regno delle Due Sicilie, avvenuta proprio in questo periodo, la zecca di Palermo venne chiusa e Napoli rimase l’unica zecca attiva. Col decreto n° 1176 si sopprimeva, inoltre, il rapporto legale di cambio che esisteva tra le monete dei tre metalli. Così, il ducato d’argento del peso di gr. 22,94 – titolo 833/1000 – divenne l’unità di base del sistema monetario del Regno. Si ebbero, quindi, i seguenti rapporti:

Tabella  n° 1.

DUCATI
 GRANI   NAPOLETANI
BAIOCCHI   SICILIANI
      1    =
            100          =                  
               100
GRANI
 CAVALLI  NAPOLETANI
PICCIOLI  SICILIANI
    100  =  
             10           =         
                 10       

Per quanto riguarda l’oro, questo ebbe solo corso fiduciario, per questo le monete auree dovevano avere un titolo pari a 996/1000 secondo il seguente schema:

Tabella  n° 2.

1 DECUPLA  di gr. 37,867    =   30 Ducati
1 QUINTUPLA  di gr. 18,933 =  15 Ducati
1 DOPPIA  di gr. 8,80            =   6 Ducati
1 ONCETTA  di gr. 3,786       =    3 Ducati

Altro decreto degno di nota per quanto riguarda le coniazioni in rame è il n° 285 del 21 febbraio 1816 in cui si decise  «per effetto del decreto de’ 2 di gennajo 1815 le monete di rame per le quali precedentemente erano in corso per grana cinque, per grana quattro e per grana due e mezzo, le prime fossero state ribassate a grana quattro, le seconde a grana due e mezzo e le ultime a grana due, e ciò non ostante portino tuttora l’indicazione del primitivo lor valor nominale». Queste monete, dunque, furono ritirate un po’ alla volta dalla circolazione per non creare disagi alla popolazione che ne faceva ampio uso nella quotidianità, e ribattute presso l’officina della zecca. Ogni moneta di rame aveva, infine, un peso di «sette trappesi» ( trappeso (1/30 di oncia) = 0,891 gr.).
Fondamentale è la legge n° 1176 «che prescrive il sistema monetario del Regno» che descrive in modo chiaro ed esauriente le tipologie e ne stabilisce perso, legende e rappresentazioni.
Una volta «abolito il conto in lire e centesimi» introdotto nel 1810 da Gioacchino Murat, fu introdotta, come già detto in precedenza, il ducato come unità basilare. Degni di nota sono i Titoli II, III, IV, V della medesima legge, in cui si annoverano il valore e il peso, oltre che il tipo, delle monete nei tre metalli. Si evince, infatti, che le monete correnti nel Regno erano per l’argento: il carlino (dal peso di gr.2,294, ovvero un tarì siciliano), il due carlini (di gr. 4,588 chiamato due tarì in Sicilia), il sei carlini (ovvero sei tarì siciliani di gr.13,765), e, infine, il dodici carlini, chiamato in Sicilia “scudo” o dodici tarì, dal peso di gr.27,532. Segue al Titolo III la monetazione aurea dove si presentano le monete già descritte in precedenza (vedi Tabella  n° 2. ). Per le monete in rame (Titolo IV) abbiamo il mezzo grano, detto “tornese”, di circa gr. 3, il grano di gr.6,237, il due grana e mezzo, detto “cinquina” di gr.15,592 e i cinque grana (in Sicilia i grani erano detti baiocchi) di gr. 31,185.


Fig.4 (ingr. 1,5:1 - da “Numismatica Ars Classica NAC AG” – n.  50 del 15 novembre 2008)

Al Titolo V segue la descrizione delle tipologie: sulle monete argentee troviamo al diritto l’effigie del sovrano «colla leggenda: “Ferdinandus I. Dei Gratia Regni Siciliarum et Hierusalem Rex”.  Al rovescione nostre armi colla leggenda: “Hispaniarum Infans”; ed il suo valore in centesimi ossia in
grana». Sul contorno delle monete da dodici e sei carlini si presenta la legenda PROVIDENTIA  OPTIMI  PRINCIPIS. Stessa iscrizione che tro-
viamo sul contorno di quintuple e decuple dove al rovescio è rappresentato il Genio dei Borbone con titolo, peso e valore corrente, il tutto accompagnato da HISPANIARUM  INFANS. Sul rovescio delle monete in rame veniva esposto il valore nominale e l’anno di coniazione. Ebbene, all’interno di questo terzo e ultimo periodo della monetazione di Ferdinando I si vanno a collocare le due piastre che ora avremo modo di confrontare. La prima è una piastra da G.120 della zecca di Napoli con data 1816 (fig.4).  Al diritto troviamo il busto paludato di Ferdinando verso destra con una folta e lunga capigliatura. La legenda recita FERD. IV. D. G. VTR. SIC .ET  HIER .REX. 


                           
Fig.5 (ingr. 1,5:1 - da “Fritz Rudolf Künker GmbH & Co. KG” – n. 184 del 15 marzo 2011)

Il diritto del secondo esemplare del 1818 da G.120 (fig.5) è occupato sempre dal ritratto del sovrano, questa volta nudo verso destra. In questa piastra Ferdinando indossa la corona e sembra assumere un’aria più dignitosa e severa, quasi come se nel suo sguardo fisso e penetrante si riuscisse a cogliere un rinnovato barlume di fiera autorità. Il ritratto è accompagnato dalla di-
citura FERD. I. D. G. REGNI. SICILIARVM ET HIER. REX.  Bisogna notare che questo esemplare, recante la data del decreto che ne regolava l’ emissione, presenta il nuovo titolo assunto dal re, in quanto primo monarca delle Due Sicilie. Lungo il contorno di entrambe le monete è scritto  PROVIDENTIA  OPTIMI  PRINCIPIS  in accordo colla legge n° 1176 – Titolo V – Art.18. Anche questa seconda piastra fuoriesce la zecca di Napoli ed entrambe presentano il bordo perlinato. Sul rovescio viene rappresentato lo scudo araldico dei Borbone con la legenda HISPANIARVM   INFANS  e G. 120. Per quanto riguarda questa dicitura, occorre notare che nell’ esemplare del 1816 nella parola HISPANIARUM la lettera U non è stata scritta secondo i canoni classici (ovvero V), mentre nella piastra 1818 la U di HISPANIARVM diventa V, segnando un ritorno alla tradizionale legenda. Non a caso la prima emissione è più rara della seconda.
L’elemento che accomuna i rovesci dei due esemplari è lo stemma borbonico. È da precisare che la forma dello scudo è diversa e serve soffermarsi sull’analisi dell’arma. Nel primo caso le insegne sono racchiuse in un contorno ovale, sormontato dalla corona reale con i sottostanti Collari del Toson d’Oro, dell’Ordine di San Ferdinando e del Merito e dell’Ordine Supremo dello Spirito Santo. Lo scudo è circondato da foglie di palma. Nel secondo caso, invece, la forma dello scudo è sagomata, sormontata dalla corona reale e completo di tutti i Collari che descriveremo in seguito. Lo stemma è quindi composto secondo il seguente schema:
Lo stemma, ovale in questo caso, contiene diciassette armi e due scudetti che compongono lo scudo suddividibile in diciannove parti. Il tutto è sormontato dalla corono reale. Partendo dagli scudetti, essi sono: 
1.Portogallo: D’argento, ai cosiddetti cinque quinas (ciascuno caricato da cinque bisanti);
2.Angiò Moderno: D’azzurro, a tre gigli d’oro posti 2,1 alla bordura di rosso. L’azzurro sta ad indicare nobiltà e grandezza, mentre i tre gigli (tre è il numero divino che rappresenta la Trinità) stanno a significare fama, onore e lindore. Il giglio è il simbolo della monarchia francese, da cui discende indirettamente quella napoletana, fin dal XII secolo e occupa la parte centrale dello stemma, dato che sono le armi principali della casata: infatti, furono aggiunte quando, il Duca d’Angiò, nipote del Re di Francia, Luigi XIV, divenne re di Spagna col nome di Filippo V. Fu il primo sovrano spagnolo della dinastia dei Borbone e ascese al trono perché sua nonna, moglie del re di Francia era figlia di primo letto di Filippo IV di Spagna e sorellastra di Carlo II, ultimo sovrano asburgico sul trono spagnolo. 
Passando alle altre diciassette armi si hanno: 
3.Castiglia: Di rosso, al castello d’oro, aperto e finestrato d’azzurro;
4.Leon: D’argento al leone di rosso, coronato d’oro;
5.Aragona: D’oro, a quattro pali di rosso; 
6.Sicilia: Inquartato in decusse di Aragona e di Svevia (d’argento, all’aquila spiegata di nero);
7.Granata: D’argento, alla melagrana di rosso, fogliata di verde;
8.Austria: Di rosso, alla fascia d’argento;
9.Borgogna Moderna: D’azzurro seminato di gigli d’oro, alla bordura composta di rosso e d’argento;
10.Borgogna Antica: Bandato d’oro e d’azzurro, alla bordura di rosso;
11.Brabante: Di nero, al leone d’oro lampassato di rosso;
12.Fiandra: D’oro, al leone nero, lampassato di rosso;
13.Tirolo: D’argento, all’aquila spiegata di rosso e armata d’oro e coronata e legata al trifoglio dello stesso;
14. Angiò Antico (Regno di Napoli): D’azzurro, seminato di gigli d’oro, al lambello di rosso di cinque pendenti;
15.Regno di Gerusalemme: D’argento, alla croce scorciata e potenziata d’oro, accantonata da quattro crocette scorciate dello stesso. Al riguardo si può dire che i Borbone di Napoli furono una delle tante nobili casate che reclamavano per sé il titolo, ormai solo formale, di Re di Gerusalemme. Furono i Lusignano a detenere per l’ultima volta qualche potere effettivo sul Regno Latino orientale. Successivamente i Lusignano di Cipro cedettero il titolo ai duchi, e poi re, di Savoia, mentre Carlo I d’Angiò, Re di Sicilia, comprò il medesimo titolo nel 1277 da Maria d’Antiochia. Ecco perché entrambe le famiglie reali possedevano questo titolo formale. Infatti, Maria d’Antiochia lo diede a Carlo I in cambio di un appannaggio e, nonostante fosse una semplice pretesa, rimase nella titolazione dei Re di Napoli fino ai Borbone. Questa fu una delle tante mosse politiche degli Angiò per espandersi nel Vicino Oriente, volendo competere con potenze straniere quali l’Impero Bizantino o gli Slavi. Maria d’Antiochia poteva vantare qualche diritto sul Regno di Gerusalemme in quanto era figlia del principe Boemondo IV d’Antiochia e di Melisenda di Lusignano, figlia a sua volta di Amalrico II, re di Cipro, e di Isabella d’Angiò, regina di Gerusalemme. I Savoia, invece, nello specifico, lo ereditarono da Carlotta di Lusignano, regina di Cipro, Gerusalemme e Armenia nel 1487. In fin dei conti, nonostante molte casate se ne fregiassero contemporaneamente, questo titolo non poteva consentire al suo detentore un dominio diretto nello Stato Latino d’Oriente per il semplice fatto che il Regno di Gerusalemme scomparve dopo il 1291.
16. Parma (Farnese): D’oro, a sei gigli d’azzurro posti 3,2,1;
17.Austria: Di rosso, alla fascia d’argento;
18.Borgogna Antica: Bandato d’oro e d’azzurro, alla bordura di rosso; si presenta una variante: la bordura era omessa quando lo stemma era usato in unione con quello dell’Austria;
19.Toscana (Medici): D’oro, a cinque palle di rosso poste in cinta 2,2,1 in capo una sesta più grande e d’azzurro, caricata di tre gigli del primo posti 2,1. La palla coi gigli fu concessa ai Medici dal Re di Francia Luigi XI nel 1465. 
Passando ai Collari possiamo darne qualche accenno:
1.Ordine dello Spirito Santo: fu creato da Enrico III di Francia nel 1578 per celebrare la sua ascesa al trono. Veniva insignito di questa onorificenza colui che aveva reso servizio allo Stato ed era devoto al Re. 
2.              Insigne Real Ordine di San Ferdinando e del Merito: fu istituito da Ferdinando IV nel 1800 e serviva come ricompensa per coloro che si erano distinti nel rendere grandi servizi e dare prova di fedeltà verso il sovrano o la Reale Famiglia.
3.              Insigne Real Ordine di San Gennaro: istituito il 3 luglio 1738 da Carlo di Borbone per celebrare le sue nozze con Maria Amalia. I Cavalieri che ne facevano parte dovevano impegnarsi soprattutto nell’essere leali e fedeli nei confronti del Re e occuparsi «a qualunque loro costo della Santissima Religione». 4.Ordine del Toson d’Oro: ordine istituito da Filippo II a Bruges il 10 gennaio 1429 nell’occasione delle sue nozze con Isabella di Portogallo. Dal 1701 solo i Re di Spagna e gli Imperatori d’Austria conservavano il diritto su quest’ Ordine. 5. Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio: creato dall’ Imperatore Costantino I aveva l’obiettivo di difendere la Chiesa di Roma e di diffondere il Cristianesimo attraverso le opere buone che i Cavalieri di detto Ordine dovevano compiere.
6. Ordine Reale di Carlo III: ordine istituito da Carlo III di Borbone, era destinato a premiare i sudditi che dimostravano una spiccata devozione nei confronti del Re. Fu anche approvato dal Papa Clemente XIV nel 1772. Fu posto sotto la tutela dell’Immacolata Concezione. 
La descrizione dello stemma così come è stata effettuata è quella della Real casa dei Borbone – Due Sicilie, mentre c’è da notare che prima dell’unificazione dei due regni, nonostante le armi fossero le stesse, sia per Napoli che per la Sicilia, il primo stemma era incorniciato da motivi barocchi e da foglie di palma, il secondo era sorretto da una grande aquila scura spiegata e coronata.


Fedi di credito.

Continuando a parlare della monetazione di Ferdinando I passiamo ora a trattare delle fedi di credito.
Per capire cosa erano e che funzione avevano bisogna andare un po’ indietro nel tempo e arrivare ad analizzare i banchi nati nel napoletano. Infatti, la fede di credito era strettamente legata ai banchi, in quanto queste erano delle ricevute compilate in conseguenza a depositi bancari.
Bisogna dire che nella seconda metà del cinquecento il mondo delle finanze italiano viene a subire la perdita di numerosi banchi privati, soprattutto genovesi. Questi erano stati la colonna portante di tutta l’economia del tempo, arrivando addirittura a effettuare prestiti a personaggi importanti e sovrani europei. Con il fallimento di questi banchi, per evitare un duro colpo alle finanze degli Stati italiani, vennero a formarsi altri banchi, questa volta pubblici, che rilasciavano al depositante una ricevuta – la fede di credito – interamente scritta a mano, all’atto del versamento di una determinata somma di denaro.
I banchi napoletani, inventori di questo titolo rappresentativo di deposito, erano inizialmente otto e furono uniti solo successivamente, nel 1794, sotto il nome di Banco Nazionale di Napoli. Fu Gioacchino Murat, nel 1809, a costituire il Banco delle Due Sicilie che, in effetti, deriva direttamente dal Banco di Napoli. Queste otto iniziali istituzioni erano:

1.Sacro  Monte di  Pietà, risalente al 1539, di cui oggi si conserva la fede di credito più antica,             datata 23 dicembre 1569 per un importo pari a 60 ducati;

2.Sacro  Monte  e  Banco  dei  Poveri;  

3.Banco  Ave  Gratia  Plena;  

4.Banco  dello Spirito Santo;  

5.Banco  del  Santissimo  Salvatore;  

6.Banco  di San Giacomo  e  Vittoria; 

7.Banco  di  Santa  Maria  del  Popolo;
8.Banco  di  Sant’Eligio.

 

Le fedi di credito non furono subito ben volute e apprezzate dai clienti dei banchi, ma, in fin dei conti, esse rappresentavano la somma depositata che, novità importante per l’epoca, poteva essere trasferita mediante girata, cioè, il girante, colui che effettuava il trasferimento della fede di credito, poteva apporre indicazioni in merito alla causale del pagamento. Ciò costituiva una notevole comodità per i commercianti che potevano viaggiare senza portarsi dietro il peso dei contanti e, all’occorrenza, potevano cambiare in moneta sonante la fede di credito in una qualsiasi filiale del banco emittente.
Queste innovazioni resero popolari le fedi e ne garantirono una regolare circolazione per parecchio tempo, non solo sul territorio del Regno, ma qualcuno di questi titoli fu spedito anche al di fuori dei confini regi.
Ma come funzionava, in questo periodo, la fede di credito? Era semplice. Il cliente si presentava presso la cassa del banco e depositava una certa somma di contante. Il cassiere, addetto a queste operazioni, si assicurava che la somma fosse giusta e ne registrava gli estremi in un primo grande libro degli introiti particolari che poi venivano aggiunti in quello degli introiti generali. Il cassiere portava queste informazioni al fedista che, ricevutele, si occupava della compilazione della fede di credito. Il documento passava nuovamente nelle mani del cassiere che sottoscriveva l’ammontare della somma depositata. Era poi compito dell’aiuto-fedista apporre il bollo a secco del banco emittente su cui, poi, il cassiere aveva l’obbligo di firmare e segnare la pagina del libro maggiore nel quale veniva riportato il conto che il cliente aveva aperto attraverso la compilazione della fede. Concluse tutte queste faccende, la fede di credito era pronta per essere consegnata al cliente del banco. Il possessore della fede, oltre ad effettuare la girata, poteva riscuotere la somma indicata, cambiarla in una nuova fede, oppure accreditarla su di un altro suo documento, tutto sempre allo stesso banco emittente.
C’è da dire che le intestazioni vennero, col passare del tempo, rese sempre più complesse in modo da evitare eventuali falsificazioni. Fu, poi, inserito anche un bollo ad olio che rendeva ulteriormente più difficile la contraffazione di dette fedi. Dalla stesura a mano dell’intestazione si passò, nella prima metà del settecento, a quella stampata. Inoltre, in caso di smarrimento o furto, fatte le dovute indagini e prese le giuste precauzioni, il banco poteva rilasciare una seconda bancale. Nel 1816, col decreto n° 569, Ferdinando I interviene nell’organizzazione del Banco delle Due Sicilie, dividendo il corpo bancario in «due distinti banchi»: uno «per il servizio di Corte», l’altro «per quello de’ particolari».
Entrambe le sezioni andavano sempre sotto il nome di «Banco delle Due Sicilie». Il decreto, entrato in vigore il 1° gennaio 1817, sanciva la creazione della Cassa di Corte, predisposta alla cura delle opere pubbliche e «del corpo municipale» e quella della Cassa de’ Privati che si occupava di «tutti i particolari della capitale del regno». Le nuove fedi di credito che queste due Casse erano autorizzate ad emettere presentavano le stesse caratteristiche delle precedenti ed erano predisposte a circolare «come moneta contante».
Si evince ancora una volta la grande versatilità che rese accomodanti tali documenti. Nel Titolo I del medesimo decreto si parla delle disposizioni della Cassa di Corte: sulle fedi di credito venivano apposte le parole “Rame” e “Argento” per indicare il conto che seguiva la dicitura della Cassa, ovvero veniva specificato se la Cassa emittente era quella di Corte o quella de’ Privati. Entrambe le Casse erano sottoposte al controllo diretto del Segretario di Stato Ministro delle Finanze De’ Medici. Mentre la Cassa di Corte si occupava principalmente della tesoreria reale, la Cassa de’ Privati, come appunto dice il nome, doveva prestare servizio a tutti quei sudditi che si rivolgevano ad essa come privati. La differenza tra le due istituzioni consisteva nel fatto che la seconda Cassa non poteva emettere fedi di credito con il conto in rame e le era riservato solo l’argento. Difatti anche le imposte si pagavano in moneta argentea, mentre il rame, considerato spicciolo, veniva adoperato dalla maggior parte della popolazione per far fronte alle spese quotidiane. In conclusione si può affermare che, nonostante la moneta metallica, proprio per il valore intrinseco che presentava, nel caso dell’oro e dell’argento, e di quello nominale, nel caso del rame, le fedi di credito e le polizze hanno contribuito a formare quella forza economica che ha caratterizzato il Banco delle Due Sicilie e che, anche per merito di un uomo capace quale fu il Ministro De’ Medici, persistette pure coll’unificazione della penisola italiana. Quel grande passo finanziario che molti Stati preunitari avevano tentato invano di realizzare si concretizzò solamente nel Regno delle Due Sicilie, che fu capace di formare un sistema economico di una efficienza tale da far divenire il Regno la potenza monetaria più in vista d’Italia e, in certi casi, dell’Europa. 



Documenti consultati:
Danilo Maucieri – Leggi e decreti monetari del Regno delle Due Sicilie (8 dicembre 1816 – 6 settembre 1860);
Collezione di leggi e decreti del Regno, edizione a stampa conservata presso l’Archivio di Stato di Napoli;
Documenti notarili del Regno redatti nella Provincia di Principato Citra facenti parte della collezione dell’Autore.

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