FRANCESCO II di Borbone, Re delle Due Sicilie bugie e verità

FRANCESCO II di Borbone, 

Re delle Due Sicilie

    non soffermatevi solo al primo edito da Treccani, ma leggetevi anche l'altra campana
di Alfonso Scirocco
FRANCESCO II di Borbone, re delle Due Sicilie. - Nato a Napoli il 16 genn. 1836 da Ferdinando II e da Maria Cristina di Savoia, che morì pochi giorni dopo il parto, crebbe in buona armonia con Maria Teresa d'Asburgo, sposata dal re Ferdinando nel gennaio 1837, e con i dodici figli nati da questo matrimonio.
Sebbene prediletto dal padre, questi ne trascurò l'educazione e, autoritario e accentratore, non si preoccupò di prepararlo al ruolo di futuro sovrano. Affidato a maestri mediocri, studiò senza mostrare particolari inclinazioni. Solo nel diritto raggiunse un buon livello di preparazione, sicché N. Nisco, non certo sospetto di filoborbonismo, ebbe a dire che "nessuno meglio di Francesco II conosceva le leggi ed i regolamenti amministrativi" (Nisco, 1894, p. 7).
Profonda influenza esercitò sul fanciullo, assecondandone la naturale inclinazione all'ascetismo e accentuandone lo spirito di rassegnazione, lo scolopio P. Vita, precettore di catechismo. Da questo, dall'istitutore monsignor F.S. D'Apuzzo, oltre che dal padre, F. derivò un profondo attaccamento alla religione, sconfinante spesso nella bigotteria e nella superstizione.
Circondato da un ambiente moralmente e intellettualmente angusto, crebbe privo di esperienze, insicuro di sé, ligio alla volontà paterna. Nell'autunno del 1858 accettò le decisioni paterne sul suo matrimonio. La scelta di Ferdinando II era caduta su Maria Sofia di Baviera, sorella di Elisabetta moglie dell'imperatore Francesco Giuseppe. Sulla designazione influì la fede cattolica della principessa, più che la volontà di rafforzare i legami con gli Asburgo.
Il matrimonio, celebrato per procura a Monaco l'8 genn. 1859, e poi di persona a Bari il 3 febbraio, unì due giovani dal carattere molto diverso. Ancora più scialba apparve la figura di F. in confronto alla bella ed esuberante moglie, che mal si adattò alla grigia atmosfera della corte napoletana.
Proprio durante il viaggio in Puglia, in occasione dell'arrivo di Maria Sofia, si erano avute le prime avvisaglie della malattia che avrebbe portato alla immatura scomparsa di Ferdinando II. L'evento colse tutti impreparati, non escluso lo stesso sovrano che fino all'ultimo aveva tenuto lontano dagli affari il figlio, entrato a sedici anni nel 1852 nel Consiglio di Stato, senza avere per questo alcuna responsabilità di governo.
Salito al trono il 22 maggio 1859, F. si trovò ad affrontare subito decisioni impegnative.
F. manifestò subito l'intenzione di rimanere fedele alla linea politica del padre. Ne conseguirono la conferma della neutralità nel conflitto tra l'Austria e il Piemonte appoggiato da Napoleone III e la caduta delle speranze di rinnovamento politico, che pure si erano nutrite e che avevano trovato fautori anche a corte, soprattutto nella persona di Leopoldo conte di Siracusa, zio del nuovo re. F. non si lasciò smuovere dall'offensiva diplomatica sferrata subito dopo la morte del padre. Francia e Inghilterra avevano colto l'occasione dell'omaggio al nuovo re per ristabilire i rapporti diplomatici interrotti nel 1856 dopo il congresso di Parigi. Ma F. non prestò ascolto ai consigli dell'ambasciatore britannico H.G. Elliot e dell'incaricato francese A. Brenier de la Renaudière sull'opportunità di riforme liberali, né accolse l'invito ufficiale del governo piemontese a partecipare alla guerra contro l'Austria e a ripristinare alla fine del conflitto la costituzione del '48, in cambio dell'impegno a garantire l'integrità del Regno.
In un primo momento, a sottolineare la politica di continuità, il re si limitò ad apportare lievi modifiche al ministero. Di lì a poco, però, le entusiastiche manifestazioni seguite alla battaglia di Magenta del 4 giugno, che apriva la Lombardia ai Franco-Piemontesi e costringeva alla partenza i duchi di Parma e Modena e le autorità pontificie dalle Legazioni, lo indussero ad affidare la presidenza del Consiglio al generale Carlo Filangieri. Il generale, apprezzato per l'opera di pacificazione compiuta in Sicilia dopo il '48, era ben visto dall'opinione pubblica, oltre che per la sua competenza e rettitudine, perché ritenuto non avverso alle idee liberali. Ciò era vero solo in parte. Il Filangieri, non meno del re, giudicava pericoloso un brusco capovolgimento delle direttive del precedente sovrano. Tuttavia riteneva urgente prendere provvedimenti per rinvigorire lo Stato, rendendo più efficiente l'azione governativa, e uscire dall'isolamento, appoggiandosi alla Francia con la concessione di una costituzione di tipo conservatore ispirata a quella napoleonica, costituzione che fu fatta anche abbozzare da G. Manna. Ostacolato in tutte le sue proposte, il generale nel settembre '59, adducendo motivi di salute e di età, si allontanò dalla capitale e offrì insistentemente le dimissioni.
In effetti fin dall'inizio i rapporti tra il re e Filangieri non si erano mostrati facili. Diffidente e sospettoso, F. non accordò mai piena fiducia al vecchio generale e, sull'esempio paterno, contrariamente alle attese, rivelò la ferma volontà di controllare personalmente la vita dello Stato. Non possedeva però gli strumenti, e forse neppure le capacità, per padroneggiare una macchina tanto complessa e, nel desiderio di esaminare tutti i provvedimenti proposti, finì con l'intralciare l'opera di riordinamento e rinvigorimento interno auspicata dal Filangieri. Il programma del generale, oltre tutto, era ispirato a una arretrata visione dei problemi del paese, che si cercava di risolvere secondo la tradizionale concezione paternalistica. Bisognava piuttosto garantirne la corretta applicazione praticando una profonda epurazione del personale e riordinando le amministrazioni. Occorreva inoltre avviare un vasto programma di lavori pubblici, "potente diversivo alle preoccupazioni degli animi", senza che però ciò comportasse una revisione complessiva della politica economica del Regno.
Malgrado la limitatezza di tali proposte poco o nulla Filangieri ottenne dal re. Così, negli affari di Sicilia, il presidente del Consiglio ottenne la sostituzione del ministro G. Cassini con P. Cumbo, ma non quella del fiacco luogotenente P. Ruffo principe di Castelcicala. I decreti del 16 giugno, che condonavano la residua pena ai condannati per reati politici, abolivano le discriminazioni a carico degli attendibili e concedevano il rimpatrio a 136 esuli siciliani, furono di fatto vanificati da una circolare riservata del direttore di polizia F. Casella, che manteneva la sorveglianza sugli "attendibili". Altrettanto vano riuscì l'auspicato rinnovamento del personale che, mancando funzionari capaci e stimati tra i sostenitori della discreditata dinastia, si ridusse a una serie di inefficaci trasferimenti e promozioni.
Anche nel settore militare i risultati furono modesti. Molti mezzi furono profusi nella messa a punto di un campo trincerato negli Abruzzi (dove nel '59 si temeva un attacco garibaldino dall'Italia centrale) che, indebolendo le altre guarnigioni del Regno, finì col risultare dannoso quando la temuta aggressione si realizzò poi in Sicilia.
Intanto il malcontento cresceva e i liberali, seppure non concordi sul da farsi, si organizzavano. Il 28 settembre F., mostrandosi consapevole delle difficoltà in cui il Regno si dibatteva, chiese ai suoi collaboratori se "visti i pessimi tempi" non fosse il caso di "cambiare via e correre la corrente". Le risposte furono in maggioranza contrarie alle innovazioni, ma, temendo che le grandi potenze in un progettato congresso sulla questione italiana potessero imporre a Napoli una riforma degli ordinamenti interni, si risolvette di incaricare il ministro per gli affari di Sicilia, P. Cumbo, della redazione di una nuova legge amministrativa. Il progetto venne a lungo discusso, esaminato, criticato; giudicato pericoloso, soprattutto per la proposta di rendere elettivi i Consigli comunali, fu accantonato.
In questo ostinato immobilismo si compromisero le sorti del Regno. Ritiratosi Filangieri, la scarsa incisività della politica governativa fu aggravata dall'indecisione di F., che rinviò l'accettazione delle dimissioni, accolte solo nel gennaio 1860, e la nomina del successore, mentre restava attorniato da uomini vecchi e inetti.
Già nell'ottobre '59 la nomina di L. Ajossa a direttore di polizia aveva segnato la ripresa della repressione di ogni forma di opposizione con arresti ed espulsioni. Nel marzo '60 la nomina dell'ormai anziano A. Statella, principe di Cassaro, alla presidenza del Consiglio fece cadere le residue speranze di un'apertura ai liberali.
Mentre si accentuava il sistema repressivo, si intensificava l'attività cospirativa e le annessioni nell'Italia centrale davano credibilità all'ideale unitario. In Sicilia, tradizionalmente ostile ai Borboni, nella primavera del 1860 l'organizzazione insurrezionale assunse concretezza d'azione. Fallito il 6 aprile il moto della Gancia, la dura repressione e il conferimento dei poteri alle autorità militari non scoraggiarono i promotori di una spedizione organizzata nel Regno sabaudo, capitanata da Garibaldi e ambiguamente sostenuta da Torino.
Mentre le truppe garibaldine dilagavano nell'isola, in un Consiglio di Stato tenutosi il 30 maggio il Filangieri rinnovò la proposta di appoggiarsi alla Francia e di concedere una costituzione moderata. La discussione sull'opportunità di un mutamento radicale nella politica estera e interna fu lunga e vivace. Si risolse, infine, di affidare l'incarico di trattare con Napoleone III a G. De Martino, ambasciatore napoletano presso la S. Sede, che, partito per Parigi il 5 giugno, non ottenne lo sperato sostegno, poiché l'imperatore consigliò di cercare piuttosto accordi con Torino. Evidentemente non rimaneva altro da farsi che concedere la tanto discussa costituzione, ma come estremo ripiego al quale tuttavia continuavano ad opporsi gli irriducibili.
La decisione fu presa nel Consiglio di Stato del 21 giugno e, con atto sovrano del 25, il re, oltre a concedere una costituzione il cui testo sarebbe stato definito da un nuovo ministero presieduto da A. Spinelli, accordò un'amnistia per tutti i reati politici, preannunziò un accordo col Piemonte, comunicò l'adozione della bandiera tricolore e promise speciali istituzioni per la Sicilia. L'accoglienza non fu calorosa come ci si aspettava. Troppo tardi il sovrano aveva concesso quello che ormai non poteva più negare.
Il ministero costituzionale avrebbe dovuto conseguire due principali obiettivi: consolidare all'interno il nuovo regime, assicurare all'esterno l'accordo col Piemonte. Ma ormai insormontabili difficoltà si opponevano ad ogni buon proposito. Da una parte i vari tentativi di avvicinamento al governo sabaudo (in luglio furono inviati a Torino il ministro G. Manna e il diplomatico A. Winspeare) si rivelarono infruttuosi. Dall'altra, il regime costituzionale, mentre era insidiato da una debolezza di fondo, determinata dalle modalità stesse con cui si era giunti ad esso, era ulteriormente reso precario dal profondo turbamento nell'ordine pubblico generato dalla fine dell'assolutismo e, soprattutto, dalla mancata adesione e collaborazione dei liberali che, dopo le amare esperienze del '48, non nutrivano fiducia nell'improvvisa conversione del re.
Il ministero Spinelli, pur non possedendo né la capacità né il prestigio per guidare il paese in un momento tanto difficile, fece il possibile per salvare la situazione. Abilmente richiamò in vigore lo statuto del '48, sospeso ma mai abrogato, evitando così di aprire una pericolosa discussione sul testo da adottarsi; si adoperò a cancellare ogni avanzo del passato dispotismo, praticando una vasta epurazione del personale che finì, tuttavia, con l'accelerare il tracollo dell'apparato statale per la mancata disponibilità, da parte di molti, a compromettersi con un governo di cui si sentiva imminente la fine; cercò di arginare i disordini, venutisi a creare nella capitale e nelle province per l'indebolimento dell'apparato repressivo, con la formazione della guardia nazionale, che incontrò però grosse difficoltà nell'organizzazione e nell'armamento; preparò progetti di legge e di riforme; indisse per il 19 agosto le elezioni.
I liberali, dissuadendo la borghesia inizialmente orientata ad accettare le concessioni fatte da F., riuscirono a creare il vuoto intorno al gabinetto costituzionale. Il dibattito, ampio e vivace, si svolse soprattutto sui giornali, che subito fiorirono numerosi. Non si riuscì, però, a concertare un'azione comune tra gli opposti schieramenti moderati e democratici e, in luglio, il fronte antiborbonico si scisse in due comitati, dell'Ordine e dell'Azione. Soprattutto nelle province ferveva il lavoro cospirativo. Dalla Basilicata, insorta il 16 agosto, l'impeto rivoluzionario si propagò rapidamente alle altre province. Il terreno era pronto per un nuovo intervento di Garibaldi che, sbarcato sulla costa calabra il 20 agosto, sbaragliò senza incontrare molta resistenza le demoralizzate truppe borboniche e avanzò rapidamente verso la capitale, dove entrò trionfalmente il 7 settembre.
Nel gennaio 1860 il re, conscio della bufera che si andava addensando all'orizzonte, aveva detto: "Se la rivoluzione scoppia, reprimerla con la forza, se si domina stabilire un governo forte ed energico; se non si domina, riunire la truppa in sito forte e certo fuori la capitale e attendere che le potenze Russia, Prussia ecc., si muovano come si deve aspettare" (Moscati, 1960, p. 64). In silenzio, dominato e trascinato dagli eventi, F. aveva atteso, ma nessuno era accorso a difendere i suoi diritti. I tempi del congresso di Lubiana erano troppo lontani.
Abbandonato da tutti - le dimissioni di Spinelli (27 agosto) e di altri ministri e generali erano state precedute dalla partenza della regina madre Maria Teresa e dei più intransigenti reazionari per Gaeta, mentre le famiglie più devote al vecchio regime prendevano la via dell'emigrazione -, F., dopo aver rinunziato all'idea di porsi alla testa dell'esercito per affrontare il nemico nella piana del Sele, il 6 settembre si decise a lasciare Napoli. Rassegnato, partì alla volta di Gaeta scortato da due navi spagnole, giacché la flotta napoletana non rispose all'ordine di seguire il re. F. non intendeva rinunziare al trono. Riconosciuto da quasi tutte le potenze europee quale legittimo sovrano, nominò un nuovo ministero, mantenne i rapporti diplomatici, pubblicizzò i suoi atti attraverso un giornale ufficiale, la Gazzetta di Gaeta.
Il nuovo ministero presieduto da F. Casella esisteva solo formalmente, senza uno Stato da governare. Più importanti in quei giorni erano i problemi d'ordine militare. Soprattutto l'inaspettato concorso di truppa che, con altissimo senso dell'onore, si raccolse nelle piazzeforti di Gaeta e di Capua, alimentò l'idea di una offensiva volta a riconquistare la capitale. Circa 40.000 uomini attendevano dietro il Volturno il segnale della battaglia. Il comando generale dell'esercito era stato affidato al generale G. Ritucci e a lui il re chiese un piano di guerra. Al momento dell'azione F. preferì però un altro piano, forse studiato dal francese C.-L.-L. Juchault de Lamorcière, molto più complesso e ambizioso di quello del generale napoletano. L'operazione, che prevedeva un'ampia manovra avvolgente sul lato destro dell'esercito garibaldino, prese il via il 1° ottobre. Le truppe, attestate a Capua, impegnarono una battaglia campale sul Volturno e furono sul punto di sfondare le linee nemiche ma, fosse per l'irrisolutezza del Ritucci, fosse per il genio militare di Garibaldi e per il valore dei volontari, l'offensiva fallì.
Il 15 ottobre, con l'ingresso delle truppe sarde (passate attraverso le Marche e l'Umbria) in territorio napoletano, svaniva ogni fondata ipotesi di riscossa. Il 7 novembre Vittorio Emanuele II entrava a Napoli e prendeva ufficialmente possesso del Regno che col plebiscito del 21 ottobre aveva accettato l'unione al Regno di Sardegna. Il 2 novembre c'era stata intanto la capitolazione di Capua. F., mostrando un'inconsueta fermezza e forza di volontà, optò per la resistenza a oltranza nella cittadella di Gaeta, pressoché inespugnabile. Il sovrano volle forse riscattarsi dalle accuse di debolezza che circolavano sul suo conto.
L'assedio di Gaeta da parte delle truppe del generale E. Cialdini si protrasse per circa tre mesi, anche per la presenza di navi francesi che impedivano il blocco dalla parte del mare. F. rifiutò tutti i consigli di resa, rispose con autentica dignità di sovrano all'annuncio della partenza della flotta francese: ritirarsi con una fortezza ancora intatta avrebbe voluto dire oscurare l'onore militare, avrebbe voluto dire rinunziare alle speranze che la spontanea reazione in varie province lasciava nutrire. Gli assediati, sostenuti dal comportamento del giovane sovrano e, soprattutto, dall'esempio dell'intrepida Maria Sofia, erano determinati a non cedere, ma il blocco navale, il violento bombardamento, la recrudescenza di un'epidemia di tifo, fecero infine decidere F. per la capitolazione, conclusa il 13 febbr. 1861.
La mattina del 14 febbraio F., seguito da Maria Sofia e da quanti avevano sostenuto quell'estrema difesa, saliva a bordo di una nave francese, la "Mouette", diretto a Roma. Qui i sovrani esiliati furono dapprima ospiti di Pio IX al Quirinale, poi spostarono la loro residenza a palazzo Farnese. F. formò un nuovo ministero, presieduto da P. Calà Ulloa, che si limitò a studiare le riforme da realizzare nell'eventualità della riconquista del Regno, ma poté svolgere un'intensa azione presso le corti europee, poiché il corpo diplomatico era rimasto fedele a F., e i rappresentanti dei paesi stranieri (tranne quelli di Piemonte, Francia e Inghilterra) avevano seguito F. a Gaeta e poi a Roma.
In marzo, con la capitolazione delle cittadelle di Messina e Civitella del Tronto, ultime roccaforti della resistenza, finiva la presenza delle truppe borboniche nel Regno, ma non finivano i sogni di riconquista. Il 5 apr. 1861 F. inoltrò una protesta a tutte le potenze per denunziare l'illegalità della posizione di Vittorio Emanuele II, e la diplomazia napoletana si adoperò per impedire il riconoscimento del Regno d'Italia da parte dei vari Stati.
Per la riconquista si puntò molto, più che su un improbabile intervento della Spagna o dell'Austria, sul brigantaggio che, esploso violentemente nelle province napoletane per la delusione e il malcontento dell'affrettata unificazione, opponeva serie difficoltà al consolidarsi del nuovo regime. Si cercò allora di trasformare le diffuse rivolte in stabile guerriglia e a questo scopo si prepararono ed effettuarono varie spedizioni capitanate da legittimisti stranieri, quali J. Borjes e R. Tristany, clamorosamente fallite.
Nonostante i piani di riscossa elaborati di volta in volta dai generali G.B. Vial, F. Bosco, T. Clary, l'intensa attività dei comitati borbonici sorti un po' dovunque in Europa per sostenere la causa di F., il grande afflusso nella capitale pontificia di legittimisti, soprattutto spagnoli e francesi, pronti a prestare la loro opera; nonostante i vari tentativi per interessare le potenze europee alla sorte dell'ultimo re delle Due Sicilie, l'attività propagandistica attraverso opuscoli e scritti, lo sperpero di danaro, le speranze di riconquista del Regno si facevano di giorno in giorno più remote. I vari Stati, ultima l'Austria, finirono col riconoscere il Regno d'Italia ritirando da Roma i loro rappresentanti presso F.; il brigantaggio perse presto ogni coloritura politica riducendosi ad espressione di malessere sociale, mentre le difficoltà finanziarie erano pressanti e la corte era dilaniata da rancori e gelosie.
Ripiegato su se stesso, F. inclinava sempre più alla rassegnazione. Già il 31 dic. 1862 aveva annotato sul suo diario: "L'anno che finisce fu per me tristo ed affligente".
Alternando la residenza romana a quella più gradita di Albano Laziale F. trascorreva le giornate tra gli "affari" e le lunghe passeggiate a piedi o in carrozza. Ma il tempo non faceva che accrescere lo scoraggiamento e il senso di solitudine del sovrano, amareggiato, oltre che dai contrasti tra i suoi cortigiani, anche e soprattutto dai pettegolezzi e dalle volgari calunnie circolanti sul conto di Maria Sofia che, dopo le eroiche giornate di Gaeta, si andava sempre più allontanando dal marito.
A questo atteggiamento corrispose il progressivo distacco da F. del vecchio mondo reazionario, orientato verso i fratelli di F., dapprima verso Luigi, conte di Trani, già in passato sostenuto da un presunto partito "tranista" capeggiato da Maria Teresa, e poi verso Alfonso, conte di Caserta.
La guerra del 1866, e poi la gravidanza di Maria Sofia nel '69, con la speranza della nascita di un erede, accesero tra i legittimisti nuovi entusiasmi, presto però delusi perché nacque una femmina, Maria Cristina Pia, morta a tre mesi.
F. alla fine del 1866 aveva sciolto il ministero. Il 21 apr. 1870, senza essere riuscito a ottenere dal Regno d'Italia neppure la restituzione dei suoi beni privati, lasciò Roma. Assunto il titolo di duca di Castro, non avrebbe più fatto parlare di sé né sul piano politico, né su quello privato. Ospitato in un primo momento dal cognato in Baviera, si stabilì poi in Francia, ma non vi tenne fissa dimora, viaggiando spesso.
Di salute malferma, era solito trascorrere ad Arco, nel Trentino, l'inverno onde alleviare i disturbi causatigli dal diabete che da anni lo insidiava e lo aveva precocemente invecchiato. Lì morì il 27 dic. 1894.
La salma fu trasferita a Trento durante la prima guerra mondiale, poi a Roma nel 1926, e infine traslata a Napoli nella sepoltura dei Borboni nella basilica di S. Chiara, nel 1984.
Fonti e Bibl.: L'Archivio riservato della Casa reale borbonica fu lasciato da F. a Napoli, e acquisito perciò dall'Archivio di Stato di Napoli; andò distrutto nel settembre 1943 ad opera delle truppe tedesche a San Paolo Belsito, ove era stato trasferito per evitare gli eventi bellici. Quanto aveva seguito F. nell'esilio fu depositato, previo acquisto dello Stato italiano, nell'Archivio di Stato di Napoli e aperto alla consultazione tra il 1955 e il 1960. Nell'Archivio Borbone i fascicoli relativi al regno di F. vanno dal n. 1132 al n. 1783 (dal n. 1201 riguardano l'attività svolta a Gaeta e nell'esilio). Segnaliamo i fascicoli 1132-1144 di corrispondenza con ministri, diplomatici, militari, i fascc. 1152-1154 relativi alla Sicilia, i fascc. 1155-1199 riguardanti la segreteria particolare del re. Il fasc. 1098 contiene la corrispondenza di F. mentre era duca di Calabria con i familiari e l'istitutore G.A. Della Spina. Nel fasc. 1662 sono appunti ed esercitazioni di F. sulle varie discipline studiate. Si veda anche l'Almanacco reale del Regno delle Due Sicilie per gli anni 1836-1859.
Per una visione complessiva del regno di F. si rimanda a A. Scirocco, Dalla seconda restaurazione alla fine del Regno, in Storia del Mezzogiorno, IV, Roma 1994, pp. 763-769, e per la bibl. fino al 1970 alle indicazioni date in Bibliografia dell'età del Risorgimento in onore di A.M. Ghisalberti, II, Firenze 1972, pp. 311 s., 351-361.
Degli studi riguardanti particolarmente F. ancora utili tra i contemporanei: G. De Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Trieste-Roma 1863-1869 (ristampa Napoli 1964); N. Nisco, Gli ultimi trentasei anni del Reame di Napoli (1824-1860), III, Napoli 1894; A. Insogna, F. II re di Napoli. Storia del Reame delle Due Sicilie 1859-60, Napoli 1898; R. De Cesare, La fine di un Regno, Città di Castello 1909; P. Calà Ulloa, Un re in esilio. La corte di F. II a Roma dal 1861 al 1870, a cura di G. Doria, Bari 1928. Tra gli studi recenti ricordiamo: A. Saladino, Il tramonto del Regno delle Due Sicilie nella corrispondenza di F. II e Carlo Filangieri, Napoli 1960; Id., L'estrema difesa del Regno delle Due Sicilie, Napoli 1960; R. Moscati, La fine del Regno di Napoli, Firenze 1960; H. Acton, Gli ultimi Borboni di Napoli, Milano 1968; F. Leoni, L'attività diplomatica del governo borbonico in esilio (1861-1866), Napoli 1969; J.P. Garnier, Nascita dell'Italia: l'ultimo re di Napoli, Napoli 1971; A. Albonico, La mobilitazione legittimista contro il Regno d'Italia: la Spagna e il brigantaggio meridionale postunitario, Milano 1979; P.G. Jaeger, F. II di Borbone. L'ultimo re di Napoli, Milano 1982; G. Coniglio, I Borboni di Napoli, Varese 1983. Per documenti di archivi non solo italiani cfr. G. Dell'Aja, Il Pantheon dei Borboni in S. Chiara di Napoli, Napoli 1987. Il Diario di F. II di B. 1862-1894, a cura di A. Gentile, Napoli 1988, conferma la mediocrità intellettuale, la rassegnazione, la religiosità portata fino al bigottismo del sovrano.
e queste sono le chiacchiere di regime savoiardo e post savoiardo di stile Giacobino che ci propinano fino ad oggi ricchi di stereotipi falsi

ci sono comunque anche le altre campane


UN MODELLO DA SEGUIRE
a cura di don Massimo Cuofano

Guardando alla figura morale e cristiana di Francesco II, non si può rimanere insensibili al suo messaggio forte e tenace di concordia, di fiducia, di speranza. I suoi occhi intelligenti e penetranti sono lo specchio di un’anima limpida, che ha fatto della verità, della giustizia e della carità il modello della propria vita.

Egli è stato Re, grande Re, che ebbe come ideale di regalità e governo non il potere del mondo, che fa dei soprusi e delle contrapposizioni la propria bandiera, ma Il Cristo Re, che nell’umiltà e nel servizio al bene vuole condurci alla vera libertà.

Mi sembra davvero di sentire attraverso la vita sofferta e vilipesa di questo Re, il canto del Magnificat di Maria, il canto dei semplici e degli umili, che pongono in Dio ogni speranza.

Nel trovarsi di fronte a capovolgimenti sociali, tante volte creati da poteri oscuri che volevano accentrare nelle proprie mani le sorti dei popoli e l’economia mondiale, calpestando i più sacri diritti dell’uomo, la fede, la famiglia, la libertà, la propria terra, e la stessa vita, facendosi profeta di verità difese il diritto e l’integrità del suo popolo, e allo stesso tempo, pur pagando di persona, volle mantenersi lontano dalla corruzione e dall’iniquità. Egli è stato sempre consapevole di essere alla presenza di Dio, e sapeva benissimo che Dio abbassa i superbi nei pensieri del loro cuore e innalza gli umili.

L’egoismo, il tradimento, la ricerca dei propri interessi, il potere di alcuni, lo avevano accerchiato per schiacciarlo, togliendogli quelle realtà più sacre a cui lui era legato, la propria patria, il suo popolo, il suo regno, persino l’onore della sua famiglia. Lo costrinsero all’esilio e alla povertà, ma egli completamente libero, perché totalmente di Dio, seppe tenere lontano dalla sua vita l’ansia e l’inquietudine, sapendo che dalla rinuncia, dalla kenosis, nascono la serenità e la pace, e che attraverso questa via Dio realizza cose grandi.
Per questo seppe mettere sempre al primo posto il bene altrui, sapendo rinunciare ad ogni protagonismo e ad ogni personale interesse, aperto alla fiducia e all’ascolto. Il suo cuore limpido non riusciva a vedere il tradimento e la malvagità, ma era sempre disposto a guardare positivamente il suo prossimo, pronto al dialogo, al confronto, ai buoni consigli.

Seppure vittima di una guerra ingiusta, cercò con ogni mezzo di costruire ponti di pace, non volendo mai che albergasse l’odio nel cuore del suo popolo e dei suoi soldati. Pronto alla difesa, ma mai all’offesa e all’accanimento feroce sul nemico.

Seppe guardare alla miseria del popolo, e di fronte a tutto il male che stava succedendo, egli comprese le amare lacrime che avrebbe versato il popolo delle Due Sicilie, e a quelle lacrime si accompagnarono le sue, abbondanti; ma allo stesso tempo consapevole che Dio non lascia vincere le ingiustizie, invitò il suo popolo alla speranza, perché Dio non sarebbe restato indifferente a tante lacrime e a tanto sangue innocente versato. Seppe guardare più lontano delle tenebre che allora oscuravano la sua vita, e si abbandonò con fiducia nelle mani di Dio, sapendo rassegnato accettare la sorte che gli era stata destinata.

Per queste motivazioni possiamo realmente guardare a lui come a un modello di vera santità. Mite, umile, compassionevole, uomo di dignità e onestà, di preghiera e fedeltà, di grande carità e serena speranza.

Dovrebbe allora albergare nel cuore di tutti questo desiderio di vederlo innalzato nella gloria, e seguire con spirito di umiltà e cristianità il suo esempio. Anche noi dovremmo trovare la capacità di saper guardare oltre le difficoltà, le incomprensioni, il buio, imparando da lui a saper costruire ponti di carità. Certamente il primo grande miracolo di Re Francesco II sarà proprio quello di vedere tutto il suo popolo ritrovare quell’onore e quella dignità dei padri, quella compattezza che nell’ora della liberazione e della riparazione troverà tutti uniti intorno all’unica bandiera, all’unico altare, all’unico trono.

La grande riparazione sarà proprio dare risalto e rivalutazione alla sua grande figura di Re e napoletano, vederlo glorificato sugli altari, vedere la sua luce risplendere nella storia. Questo è più importante di ogni altra cosa, coscienti che la sua glorificazione illuminerà il nostro futuro.

Per questa intenzione da tempo sto pregando, e continuerò a pregare, invitando a farlo ciascuno di voi, imparando proprio dal nostro Re, che ogni giorno partecipava alla Messa e recitava il Rosario, affidando a Dio la propria vita, certi che Dio solo basta.

Preghiamo con fiducia il Signore perché possa glorificare Francesco II, Re delle Due Sicilie, e possa illuminare ciascuno di noi, affinché sui passi di quest’uomo di Dio sappiamo anche noi vivere una fede autentica, lasciandoci illuminare dalla sapienza; sappiamo mantenere accesa la fiaccola della speranza, con una vita prudente e giusta; sappiamo imitarlo nelle virtù, forti nelle tentazioni e pazienti nelle prove della vita; sappiamo vivere nella carità e nel perdono. Amen.




FRANCESCO II DI BORBONE DELLE DUE SICILIE
UN VERO RE, UN GRANDE UOMO, 
UN VERO CRISTIANO, UN GRANDE SANTO
 Don Massimo Cuofano
Nel suo prologo l’evangelista Giovanni dice che chiunque accoglie la Luce ha il potere di diventare figlio di Dio. Accogliere la Luce significa avere fede in Gesù Cristo, la Luce che è venuta ad illuminare le tenebre. Ed è la fede in Gesù che ci rende figli di Dio, e come dice poi l’apostolo Paolo, eredi  del suo Regno.
Proprio in questa dimensione io leggo l’esperienza terrena di Francesco II di Borbone delle Due Sicilie, l’ultimo Re di questo Regno che per secoli ha conosciuto l’autonomia e il buon governo.
Francesco d'Assisi Maria Leopoldo di Borbone nasce a Napoli, il 16 gennaio 1836, dal grande Sovrano Ferdinando II e  da Maria Cristina di Savoia-Borbone,  “la Reginella Santa”,  che questo prossimo 25 gennaio sarà beatificata.  Di  questa sua  “ napoletanità”  si sentiva fiero e felice, come sentiva profondo amore e affetto per la sua terra e il suo popolo.
Egli è stato provato molto presto, quando appena pochi giorni dopo la sua nascita la sua mamma muore proprio per i postumi del parto.  La  memoria  di questa donna stupenda e buona, della quale sempre su padre gli parlava, è ben impressa nel suo cuore e nella mente, e la fama di  essere il figlio della “Regina Santa” accompagnò tutta la sua esistenza.
Dalla sua  memoria imparò  l’umiltà  e  la  mansuetudine, e da  vero  cristiano  seppe  sempre   guardare  aldilà  delle tenebre, fondando la sua vita sulla fede cristiana, nell’onestà  dei  costumi  e   di pensiero,   consapevole  di essere chiamato a servire il suo popolo.
Come sua  madre, e lo stesso suo padre, anche  lui è stato devoto della Vergine Maria, e certamente tante volte fissò in Lei il suo sguardo, chiedendole di farle da Madre e di accompagnarlo nel suo dovere di Re.
La sua formazione umana, culturale, spirituale  è stata affidata ai Gesuiti, che seppero ben imprimere in lui quelle virtù cristiane che faranno di lui un grande Re. Ma non gli mancarono neppure la formazione militare e del buon governo, che imparò direttamente da suoi padre. È molto significativo un aneddoto della fanciullezza di Francesco, quando accompagnò suo padre in visita ai soldati che stavano facendo esercitazioni militari. Sia Re Ferdinando che il piccolo Principe mangiarono alla mensa dei soldati semplici, cosa abituale per il Re, e a tavola fu servito il pane raffermo. Francesco, ancora molto piccolo, ebbe un gesto di disgusto e di rifiuto dinanzi a quel pane. Suo padre, uomo di grande intelligenza e umanità, guardandolo con dolcezza e fermezza gli disse: “perché non vuoi mangiare questo pane?”. Egli rispose che era pane vecchio, e che non gli piaceva. Suo padre con dignità e autorità rispose: “se lo mangiano i soldati, che sono migliori di noi, perché non dovremmo mangiarlo noi?”. Il ragazzo  comprese la lezione, che certamente ricordò per sempre, e mangiò quel pane con gusto, consapevole che la virtù dell’umiltà e la semplicità, valgono più di tutte le grandezze del mondo.
Proprio questa consapevolezza faranno di lui il Re che è stato, preoccupandosi sin dai primi momenti del suo regno al benessere di tutta la sua gente. Si occupò per l’assistenza dei poveri, costruì e ampliò ospedali, fece bonifiche,  organizzò la scuola di diritto internazionale e  si  occupò  per  l’istruzione  della sua gente,  fece  nuovi  progetti  per  la  diffusione   delle ferrovie,  e  altri  decreti  per  la  valorizzazione delle industrie e dell’economia.
Egli aveva dinanzi a sé un modello esemplare di regalità, quella che viene dal Vangelo, si sentiva, ed era effettivamente, “lo sposo” del suo popolo, che amò fino alla fine della sua vita,  ben  oltre  la  perdita  del trono e la fine del Regno.
Infatti egli  regnò per breve tempo, a causa di avvenimenti  che non solo capovolsero le sorti del Regno delle Due Sicilie, ma l’Europa intera e la Chiesa, che avrebbero conosciuto l’amarezza di una rivoluzione, che avrebbe seminato nella società violenza, guerre, dispotismi, razzismo e morte.
Francesco II, con grande lucidità, seppe guardare lontano, e denunciò con chiarezza quel delitto che si stava commettendo, consapevole che la pirateria che  aveva portato subbuglio e disordine nel suo regno, non era altro che l’anticipazione delle violenze e ingiustizie future.
Egli aveva  visto   bene  che  dietro   tutto   quel movimento rivoluzionario  si  nascondevano  i disegni della massoneria che  impadronendosi  oggi  dei  suoi  Stati,   ben   presto  avrebbero minacciato l’intera Europa. 
Infatti  quella violazione delle norme  più  elementari  del diritto internazionale,  che  ora  stava  danneggiando  il  suo Regno, avrebbe spianando  la  strada a  regimi  basati  sulla forza , la corruzione e sulla violenza, anziché sul consenso dei popoli.
Fu profeta che aveva guardato ben lontano, rendendosi conto  dei totalitarismi  e  massacri,  che nel secolo successivo avrebbero trasformato l’Europa e il Mondo  in un immenso teatro di violenza e di guerre,e di quelle nuove idee che avrebbe portato tanto male alla stessa Chiesa Cattolica.
Nessuno  in quel momento sembrava rendersene conto quanto lui. Forse solamente il Beatissimo Papa Pio IX si rese conto di questa grave ingiustizia, e cercò di intervenire per aiutare il giovane Re, ma egli stesso rimase inascoltato. Ormai i grandi dell’Europa erano per la maggiore soggiogati dalla massoneria, che ben presto avrebbe fatto sentire la sua mano pesante ad altri imperi e altri regni.
Alla fine visse questo evento, che aveva contrastato con tutte le sue forze per amore della verità e della giustizia, con serenità e pace. Uomo mite e semplice, non pensò mai ai suoi interessi personali o alle ambizioni, ma solamente al bene della sua gente. Certe scelte fatte, da taluni criticate, non furono frutto di paure o scrupoli, ma solamente per non portare sofferenza al suo popolo. E quando quel popolo si oppose alla colonizzazione del proprio paese, egli non mancò di sostenerlo e difenderlo. Ma dinanzi alle disparità della forza e alla sofferenza della sua gente, preferì l’esilio e la povertà, ma non abdicò mai ai suoi doveri di Re e di Sposo del suo popolo.
Seppure era stato reso povero da quei malvagi che l’avevano ingiustamente detronizzato, seppe vivere sempre con dignità nel suo esilio, e all’occasione non mancava mai di soccorrere il suo popolo ridotto anch’esso in povertà. “Tutte le lacrime dei miei sudditi  ricadono sopra il mio cuore… io sono Re, e come tale io debbo l’ultima goccia del sangue mio e l’ultimo scudo che mi resta ai popoli  miei”. E questo programma lo realizzò fino alla fine. Proprio in occasione del terremoto che si abbatté nella città di Torre, poco lontano da Napoli, egli attraverso il Cardinale di Napoli, il venerabile Sisto Riario Sforza, fece giungere alle popolazioni colpite una sua carezza di padre, e il suo aiuto economico.
E al popolo meridionale, ormai condannato da quella “falsa annessione al Regno d’Italia dei Savoia”  ad essere o brigante o emigrante, non mancò mai di rivolgere parole di speranza e di amore. Egli era  accompagnato dalla consapevolezza che le usurpazioni non sono eterne, e che Dio avrebbe prima o poi fatto giustizia. E  con la passione e l’amore di un vero Re,  che aveva sposato il  suo popolo  nella buona e nella cattiva sorte,  anche  da  lontano   continuò  a  interessarsi della sua gente, particolarmente  nei  momenti  di  bisogno,   e  qualsiasi duo siciliano si  presentava da lui veniva accolto con affetto,  e non ripartiva mai a mani vuote.
Gli  ultimi  anni della sua vita li trascorse ad Arco di Trento,  sempre sobrio ed umile,  disponibile verso la sua gente e verso chiunque. Mai alcuna parola di biasimo o di rancore dalla sua bocca, ma sempre parole di pace e di incoraggiamento. Lontano da ogni vanità , mai si è lasciato vincere dalle  illusioni. Aveva conservato il titolo di Duca di Castro, ma tutti ad Arco lo conoscevano come “il signor Fabiani”. E con serenità e umiltà, da vero gentiluomo, ogni mattina si recava alla Santa Messa e poi sedeva ad un bar per fare colazione e leggere i giornali. Ogni sera poi era sollecito a recarsi presso la Chiesa della Collegiata per la recita del Santo Rosario. Le sue giornate erano accompagnate dalla preghiera e dalla carità.
Francesco II di Borbone delle Due Sicilie lascia alla storia un nome, che le iniquità e le calunnie non possono oscurare.
È stato uomo di grande spessore, e ne è prova il suo ricco epistolario, il suo diario, e la memoria di chi gli è stato vicino fino alla fine. Ci troviamo realmente dinanzi alla figura di un vero  Re e un vero cristiano,  dal  profilo  morale,  umano, spirituale, intellettuale , di altissimo rigore. E così come è vissuto, alla stessa maniera: “Con l’anima  serena  dell’uomo giusto, con  gli  occhi estaticamente rivolti alla visione di quel sereno cielo che lo vide nascere, è morto il Re adorato, l’ultimo vero Re”.
Questa è la forza dei grandi, essere  veri cristiani e santi, saper andare incontro a Dio con animo retto e serenità, dopo  aver  vissuto  con  dignità  e onore,  generosità e amore, ricco di misericordia. Questo è stato Francesco II di Borbone delle Due Sicilie, un vero Re, un grande uomo, un vero napoletano, un grande Santo.
Per questo lo ricorderemo sempre nella preghiera, e ci rivolgeremo a Lui, che dal cielo ci guarda e ci sorride.
Comitato Morale per la Beatificazione di Francesco II di Borbone

Matilde Serao sulla morte del re delle Due Sicilie Francesco II di Borbone.

Napoli apprese la notizia della morte del re Francesco II di Borbone dalle
colonne de "Il Mattino". Matilde Serao scrisse in prima pagina un articolo
dal titolo «Il Re di Napoli», in cui fra l'altro diceva:

«Don Francesco di Borbone è morto, cristianamente, in un piccolo paese alpino,
rendendo a Dio l'anima tribolata ma serena.
Giammai principe sopportò le avversità della fortuna con la fermezza
silenziosa e la dignità di Francesco secondo. Colui che era stato o era
parso debole sul trono, travolto dal destino, dalla ineluttabile fatalità,
colui che era stato schernito come un incosciente, mentre egli subiva
una catastrofe creata da mille cause incoscienti, questo povero re,
questo povero giovane che non era stato felice un anno, ha lasciato che
tutti i dolori umani penetrassero in lui, senza respingerli, senza
lamentarsi; ed ha preso la via dell'esilio e vi è restato trentaquattro
anni, senza che mai nulla si potesse dire contro di lui. Detronizzato,
impoverito, restato senza patria, egli ha piegato la sua testa sotto la
bufera e la sua rassegnazione ha assunto un carattere di muto eroismo...
Galantuomo come uomo e gentiluomo come principe, ecco il
ritratto di Don Francesco di Borbone».

La salma di Francesco II, vestita con abiti civili su cui spiccavano le
decorazioni e fra queste la medaglia al valore militare per la difesa di
Gaeta, restò esposta nella camera ardente fino alla sera del 29 dicembre 1894



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